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Nura Al Sa’d, una voce dal Qatar

Articolo di Federica Pistono

Foto di Anna Amandorla

  Nura Al-Saad (Nūrah Āl-Saʿd), nata a Doha, in Qatar, nel 1964, è scrittrice, accademica, critica letteraria e giornalista.

 Ha conseguito una laurea presso il Dipartimento di Lingua araba dell’Università del Qatar, nel 1985, e una laurea magistrale in Lettere presso il Dipartimento di Lingua araba dell’Università della Giordania, nel 1992.

 Nel 1989, ha pubblicato una raccolta di racconti, Bā’ʿ al-ǧarā’id (Il venditore di giornali), e, negli anni successivi, una raccolta di articoli di critica letterari e diversi studi critici, fra i quali Taǧribah ʿAbd al-Raḥmān Munīf fī Mudun al-milḥ, dirāsah naqadiyya (L’esperienza di ʿAbd al-Raḥmān Munīf in Città di sale, uno studio critico), del 2005, e Aṣwāt al-ṣamt: maqāllāt fīal-qiṣṣah wa al-riwāiyyah al-qaṭariyyah (Le voci del silenzio: saggi sul racconto e il romanzo del Qatar), del 2005.

 Nel 2011 ha pubblicato il suo primo romanzo al-ʿArīḍah, (Bayrūt, al-Mu’sasah al-ʿarabiyyah li-l-dirāsāt wa-l-našir), (La petizione). Nel 2013 ha pubblicato una nuova raccolta di racconti, Bārānūyā, (Bayrūt, al-Mu’sasah al-ʿarabiyyah li-l-dirāsāt wa-l-našir),(Paranoia). 

  La petizione

  In questo corposo romanzo di 372 pagine, Nura Al Saad ci presenta un ampio spaccato della società qatariota, pressocché sconosciuta al lettore occidentale, attraverso una prospettiva storica che abbraccia svariati decenni e diverse generazioni. L’opera ripercorre, infatti, le vicende di una famiglia originaria della capitale Doha, sullo sfondo della storia nazionale. La vicenda si apre a Beirut, a metà degli anni Settanta, poco prima dell’esordio della guerra civile libanese. A Beirut, la protagonista Aisha si reca con il marito per iscrivere il figlio Ahmed all’Università Americana. Proprio all’università, durante un tumulto studentesco, la donna incontra Salih, un antico innamorato di gioventù, dal quale è stata costretta a separarsi per sposare un altro uomo. L’incontro, casuale e improvviso, risveglia la memoria del personaggio, i cui ricordi raccontano al lettore un passato lontano, rievocando le diverse fasi del movimento politico e sindacale sviluppatosi in Qatar fin dagli anni Cinquanta. Davanti agli occhi del lettore curioso, sfilano gli scioperi, le lotte dei lavoratori per l’aumento dei salari e il miglioramento delle condizioni di lavoro, le manifestazioni a sostegno dell’Egitto, seguite alla nazionalizzazione del Canale di Suez del 1956, le dimostrazioni contro la Gran Bretagna, le lotte finalizzate all’abolizione della tratta degli schiavi, la “petizione”, firmata dai cittadini,  rivolta al Governo per ottenere riforme in campo politico, sociale ed economico, la “controrivoluzione” degli anni Sessanta, l’indipendenza del 1972. Proprio questa “petizione” è considerata dall’autrice un evento storico di particolare importanza, al punto di dare il titolo al romanzo. Anche se la narrazione si spinge oltre l’inizio del nuovo millennio, il periodo storico maggiormente approfondito risulta proprio quello che va dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta.

  Accanto al gusto per la ricostruzione storica, Nura Al Saad svela il proprio interesse per l’universo femminile attraverso l’introduzione di un secondo personaggio, quello della Dottoressa Munira, che guida il lettore in un viaggio filosofico volto a esplorare l’universo sentimentale, con un focus sull’amore e il matrimonio, analizzati attraverso lo sguardo di una donna qatariota del secondo Novecento.           

  I tempi più recenti sono illustrati tramite le storie delle nuove generazioni della famiglia di Aisha e Munira, con una narrazione che mette a fuoco le problematiche del primo decennio del nuovo millennio. Hoda è una ragazza moderna che non accetta più, come le giovani della generazione precedente, il matrimonio combinato, ma si ribella ai costumi e alle tradizioni della società, scegliendo di sposare un americano.  Il rifiuto delle usanze dei padri conduce il personaggio al matrimonio con un uomo straniero e all’adozione di uno stile di vita occidentale. Salwa è, invece, una giornalista coraggiosa che conduce inchieste scottanti. Su di lei e i suoi colleghi si abbatte, pertanto, l’ira del governo e dei servizi segreti. Accanto agli spregiudicati personaggi femminili, si muovono i personaggi maschili, come Tareq, che imbocca la via del salafismo per unirsi a un gruppo che combatte il jihad in Afghanistan, e Abdullah che, fedele all’antica mentalità nell’affrontare la vita e i problemi familiari, diventa un uomo d’affari che lavora in Borsa.

  La narrazione si fa particolarmente interessante nei passi in cui l’autrice si sofferma sulla descrizione di miti, leggende, tradizioni che costituiscono parte integrante del patrimonio culturale qatariota, eroso, a partire dagli anni Ottanta e Novanta, da una sconvolgente modernità.   

  Il romanzo, dunque, è interessante perché, sviluppando una trama che coinvolge diverse epoche storiche, ci restituisce l’immagine di un paese di cui l’Occidente si è, finora, scarsamente occupato, e che risulta poco conosciuto anche all’interno dello stesso mondo arabo.

  La scrittrice mette in scena una folla di personaggi, appartenenti a generazioni e ceti sociali diversi, ma le numerose storie s’intrecciano senza confondere il lettore, componendo una saga qatariota che non cede facilmente alla costruzione di caratteri stereotipati, specialmente per quanto riguarda i ritratti femminili.

              La petizione

  Aisha si svegliò, anche se una parte di lei continuò a dormire, come faceva da più di vent’anni. Si alzò pesantemente dal letto. Non erano arrivati a Beirut da ventiquattr’ore, è già Aisha si annoiava. Beirut era Beirut, a suo parere, e, anche se fossero partiti per la montagna, non avrebbe cambiato umore. Si vestì in fretta, sorseggiò qualcosa di caldo, afferrò la borsa sul divano e si avviò verso il posto in cui l’aspettava l’autista, con quel berretto ridicolo che gli autisti di Beirut indossavano per sfoggio di eleganza, secondo Aisha, avvezza alla semplicità. Dentro di sé non era cambiata, nonostante il completo in cachemire, la sciarpa in seta e la borsa in cuoio naturale, ultimo strillo di Harrods.

  Cercando gli occhiali da sole, Aisha palpò un cartoncino, rendendosi subito conto di cosa si trattava. Era il biglietto da visita dello psichiatra, che conservava da mesi in una tasca interna della borsa. In realtà, non pensava di andarci. No, di sicuro non ci sarebbe andata. Avrebbe conservato l’indirizzo solo per l’eventualità che accadesse ciò che non sarebbe dovuto accadere. 

 Quando erano arrivati, il giorno precedente, era esausta, e non si era presa la briga di controllare l’appartamento, né di chiedere alcunché a Umm Joseph, anzi, aveva sbrigato in fretta i soliti preamboli. Quando era squillato il telefono, suo marito Bu Salem aveva strappato l’apparecchio dalle mani della giovane cameriera ed era entrato: «Chissà se sono arrivati a Beirut?»

  Era venuto in compagnia del loro figlio Ahmed per iscriverlo all’Università Americana di Beirut.

  Da quando aveva assistito, a Doha, al cosiddetto “Movimento correttivo”[1], anni addietro, Aisha aveva passato il tempo a osservare suo marito vegliare, assentarsi da casa, trascurare tutte le questioni familiari, ma insistere, dopo qualche esitazione, per accompagnare Ahmed a Beirut in questo viaggio improvviso, per assicurarsi che la situazione universitaria del ragazzo fosse in regola…Che cosa poteva mai esserci da regolarizzare? Aisha non sapeva cosa pensare di Bu Salem al-Madaʿasi, ma era sicura che sapesse quello che faceva, e che sapesse molte cose che lei, invece, ignorava. Bu Salem si distraeva a lungo. Aisha non gli domandava di cosa si stesse occupando. Sapeva quando allontanarsi da lui, quando lasciargli spazio, sfruttando al meglio l’ampliamento dei propri orizzonti. Questo era il tacito accordo, l’intesa che, da anni, i due avevano concluso: lui aveva la sua vita, lei le sue faccende. Bu Salem, il giorno avanti, non le aveva accennato nulla, ma suo figlio Ahmed le aveva detto di volersi sposare! Oggi, i due erano a Beirut, per “sistemare gli affari del ragazzo in città”, e iscriverlo all’università in cui aveva studiato suo padre.    

  Aveva concordato con Ahmed di incontrarsi all’università a mezzogiorno, pranzare insieme e discutere “dell’argomento”. In realtà, stava eseguendo un ordine esplicito di Bu Salem: avrebbe dovuto seguire da sola la faccenda e, in seguito, mantenere i contatti con il tutor di Ahmed, all’insaputa del ragazzo, per garantire il perfezionamento dell’intera procedura.  Aisha sapeva bene quanto Bu Salem fosse attento e vigile nel controllare tutti i loro movimenti. Per questo, Aisha desiderava eseguire i suoi ordini.

  Beirut era magnifica in quella stagione. Una Beirut silenziosa e tranquilla, splendente del fuoco della sua bellezza, lambita dal tumulto imminente[2], come la stessa Aisha… Beirut era una donna matura, riservata, che fissava il mondo dall’alto, con consapevole, antico sarcasmo, meditativa e pensierosa, preoccupata soltanto di quei giorni, ancora impegnati in arzigogoli filosofici. 

  Quando l’auto si avvicinò alla strada dell’università, si trovò di fronte alcune transenne. Aisha domandò all’autista: «Che cosa succede? Che cosa significa questo blocco?»

  «Non saprei, signora. Forse un incidente, o una rissa fra teppisti».

  Suo figlio Ahmed voleva ottenere la solidarietà della madre perché lei gli stesse a fianco, senza sapere che quella non desiderava altro che eseguire gli ordini e rispettare le decisioni del padre! L’avrebbe controllato come, ora, questo autista era ansioso di controllare lei e di presentare il suo rapporto a Bu Salem. Aisha era sicura di quest’aspetto, ci era abituata, viveva ogni fatto nuovo che accadeva nella vita come un ordine indiscutibile. Era consapevole che anche i suoi figli la controllassero in nome e per conto del padre, si diceva che Bu Salem non volesse altro che il loro bene. Si assumeva tutte le responsabilità, decideva ogni cosa perché sapeva quale fosse l’interesse della famiglia. Sarebbe bastato lui a pensare, a provvedere per tutti loro. Era in grado di plasmare il loro futuro, di renderli felici e soddisfatti. Le donne non erano forse invidiose di lei? Suo marito non le offriva forse quello che ogni donna desiderava? A quale matrimonio stava pensando Ahmed, quando ancora spendeva i soldi di suo padre? Perché non completare gli studi? Per quale motivo aveva tanta fretta?

  L’auto fu costretta a fermarsi nelle vicinanze della strada dell’università. L’autista si offrì di scendere e indagare sull’accaduto, ma gesti rabbiosi gli ordinarono, da lontano, di muoversi. Un poliziotto subito si accostò, dicendo: «Si muova, perché si è fermato qui? Via subito…»

  L’autista si mosse, dopo aver scambiato un rapido sguardo con Aisha. Guardandola nello specchietto retrovisore, le disse: «Signora, è meglio non avvicinarsi troppo. Dove andiamo?»

  Il posto, in realtà, appariva tranquillo. Solo alcuni ragazzi uscivano di corsa dal campus e, a parte quelle dannate transenne, non c’era nulla di sospetto.

  L’autista domandò di nuovo: «Torniamo indietro? Ce ne andiamo di qui, signora?»

  Sospirando di sollievo, Aisha rispose: «Molto bene».  Quindi, d’un tratto, gridò: «Si fermi un attimo… Scendo qui.  Certamente Ahmed si trova nelle vicinanze e ci sta aspettando… Non si muova dal suo posto!»

  Quando percepì l’ansia dell’autista, fu sul punto di cambiare idea, ma questi si affrettò a dire:

  «Arrivederci, Umm Ahmed».

  Pur percependo qualcosa di falso nel suo tono, si diresse verso il cancello, spalancato come la bocca di un mostro mitologico, nascosto dietro il manto splendente del sole di Beirut.

  Si vergognava forse di tornare indietro? Aveva paura per Ahmed? Camminò senza voltarsi, consapevole degli occhi che la seguivano da lontano. D’un tratto, un poliziotto gridò qualcosa a un collega, forse un avvertimento legato alla sicurezza, mentre Aisha entrava nel campus, alla ricerca di Ahmed… Attraversò quei pochi metri con leggerezza e velocità, decisa a liberarsi della paura e a risolvere il problema.    Appena entrata, si ritrovò in mezzo a una folla di studenti turbolenti.

  Perché Aisha aveva ceduto agli inganni di Beirut? Eccola bloccata, non poteva andare avanti, non poteva tornare indietro. All’improvviso, immaginò la figura di Bu Salem. Che cosa avrebbe fatto? Come si sarebbe giustificata di fronte a lui? Aisha fu costretta a raggiungere i ragazzi che le stavano davanti, perché voci furiose si levavano alle sue spalle. Sperduta, smarrita, si confuse nella folla, trasformatasi in una calca in movimento. Alla prima occasione, scivolò via, uscì dalla ressa, incollandosi al muro e lasciando andare la massa. 

  Si staccò dal suo posto in silenzio. Questo aveva sempre fatto, in tutta la sua vita: ritirarsi davanti al pericolo, attendere la fine del momento critico. Non era in grado di sopportare tanta paura in una volta sola, all’improvviso, non poteva fare a meno di nascondersi in un rifugio, di rendersi invisibile, quando non le era più possibile tornare indietro. Fissò quei volti, che le parvero indifferenti, poi smise di guardarli, di notarli; volti che non recavano traccia di paura, come il suo. D’altronde, quelli erano ragazzi nel fiore della giovinezza! Aisha, che non superava di molto la trentina, si sentì all’improvviso decrepita, appassita come il bagaglio che si portava dietro…Sentì di essere entrata nella seconda parte della vita.

  Dopo il passaggio degli studenti, Aisha scoprì il piazzale davanti a sé, vide finalmente ciò che l’aveva spaventata. Fissò l’uomo, distante solo pochi passi da lei: era Salih Bin Ahmed!   

  Avrebbe preferito non essere vista, ma non sapeva dove nascondersi. Non avrebbe potuto evitarlo, girandosi da un’altra parte. Socchiuse gli occhi, come fanno i bambini. Per un attimo provò imbarazzo, si voltò per gettargli un altro sguardo, per vedere se quello guardasse nella sua direzione e la indicasse con il dito! Il sangue le si gelò nelle vene. Rimase immobile, senza fiatare. Nel frattempo, Salih continuava a parlare con chi gli stava intorno, come se non l’avesse vista o non l’avesse riconosciuta.   

  Era proprio Salih Bin Ahmed, in carne e ossa, non era cambiato molto, anzi, non era mutato affatto. Aveva qualche filo bianco sulle tempie ed era leggermente ingrassato. Indossava pantaloni neri e camicia bianca, e chiacchierava proprio come faceva vent’anni prima, gesticolando come per evocare i tempi passati e le anime dei grandi, dando l’impressione di calarsi lungo una corda in un abisso per estrarre meraviglie dal fondo.

  Non era cambiato, era lo stesso Salih di un tempo, quando, fermo a Sayf al-Mirqab, appallottolava la sua ghutrah e la guardava, con un occhio chiuso e l’altro schermato dal riverbero del sole, mentre lei se ne andava in giro per il quartiere con le sue amiche. Salih era rimasto nella mente di Aisha, giorno e notte, lei si era aggrappata a lui come il lunatico si aggrappa alla notte – come dicono a Beirut – e, anche se le notizie di lui le arrivavano lentamente, l’aveva seguito da lontano, informandosi delle vicende più importanti. Di lui sapeva molte cose: aveva proseguito gli studi con difficoltà, si era sposato tardi, aveva avuto una vita tormentata, era stato messo sotto sorveglianza e aveva patito ristrettezze per molti anni. Adesso, era padre di tre figli maschi e di una femmina, che aveva chiamato Wasmiyya… (L’aveva chiamata con quel nome che, un tempo, aveva usato per rivolgersi a lei. Aveva dato quel nome a sua figlia in ricordo di lei o in onore dell’amore passato?) Salih le era rimasto nella mente, perché lei si scusasse di averlo dimenticato o di non averlo riconosciuto subito.

  Ora, Salih si trovava davanti a lei, il sudore gli imperlava la fronte solcata di vene, come di vene era solcata la memoria di Aisha, che cominciò a rievocare eventi accaduti negli anni Sessanta.

  Aisha vedeva la situazione in cui si trovava da un’ottica fatalista. Da tempo, aveva scelto il proprio destino, impegnandosi nel proprio ruolo, senza scansarne gli aspetti negativi. Esistono persone che eludono, procrastinano, affrontano il loro destino con falsi rinvii, lotte, manovre e trucchi psicologici. Aisha, invece, accettava tutto ciò che la vita le dava, a condizione di avere l’ultima parola nell’interpretazione dei fatti che la riguardavano. Così, era diventata l’opposto di Giovanna D’Arco, una testimone invisibile, come lo era in quel momento. Era attratta dalla vita sociale, dalle attività collettive, come una canna al vento che oscilla sulla superficie della vita degli altri, senza alcuna possibilità di liberarsi da ciò che la circondava, o di separarsene, se non idealmente: quelle attività, quei movimenti collettivi li controllava, li passava al vaglio della sua interpretazione personale, silenziosa.

  Qualcuno la chiamava saggezza di vita. Aisha credeva in una vita perfettamente preordinata, organizzata, programmata. Le persone erano involontariamente guidate a interpretare ruoli ben definiti, erano spinte a comprare merci sul mercato, compiendo scelte indotte, prediligendo questo e non quello, cadendo in quest’inganno e non in quello, scegliendo di ottenere questo e rinunciare a quest’altro. La vita scorreva all’interno di questi margini ristretti, e la gente ne seguiva, volente o nolente, il flusso, creandosi ruoli ben definiti fin dal principio…

  Addentrandosi in quel gruppo turbolento, Aisha si era recata a un appuntamento con il destino e, restando bloccata nella folla, incapace di avanzare o retrocedere, si era immediatamente arresa. Era consapevole che quella era la sua vita: trovarsi al centro di un fenomeno prestabilito e ineluttabile, essere costretta a fare i conti con gli eventi e ad accettarne le conseguenze.

  Era quello il tipo di eroismo cui erano destinati alcuni individui, che l’avrebbero accolto e sopportato come una scelta volontaria.  Le persone come Aisha non apprezzavano l’improvvisazione, con cui affrettarsi a forgiare il proprio destino, anzi, ritenevano che fosse il fato a determinare la loro sorte e i limiti del loro eroismo, decidendo fallimenti e imponendo rinunce. Agli occhi di Aisha, il vero eroismo era quello delle protagoniste dei romanzi di Muhammad ʿAbd al-Ḥalim ʿAbdallah, Ali Ahmad Bakhtir e Abdel Halim Judah al-Sihar. Si trattava di un tipo di eroismo votato all’accoglimento del sacrificio e del dolore, all’accettazione del compenso offerto dalla vita in cambio dell’ubbidienza, fosse pure con onore e rispetto, della resa di fronte al destino. Si trattava di un livello di sublimazione al di sopra dell’umiliante realtà, per accettare e ingoiare le conseguenze di trascuratezza, ingiustizia e offesa.   

  Quando Aisha era scesa dell’auto, e si era precipitata in quel cortile spaventoso, quasi senza uno scopo, non l’aveva fatto pressata dalla paura per Ahmed, o dalla preoccupazione per lui, al contrario, era stata spinta dal destino che l’aveva condotta a Beirut, e a quella strada, e a quell’evento che non le apparteneva, di cui ignorava le cause. Quando era rimasta bloccata in mezzo alla folla, non avrebbe potuto vedere, in quel momento, né percepire ciò che accadeva intorno a lei; non perché non potesse capirlo, ma perché non era parte dei fatti e, pertanto, non avrebbe dovuto essere in quel luogo. Quando si era allontanata dai giovani, nell’ampio campus universitario, allora soltanto si era fermata a guardare in faccia ciò che l’aveva spinta a muoversi, a dirigersi verso il suo destino, perché non sapeva ancora cosa avrebbe dovuto fare. Ciò che le accadeva nella vita, si presentava sempre come un’emergenza transitoria, come qualcosa di temporaneo, destinato a terminare in fretta.  «Tutto questo finirà!», erano le parole che si era ripetuta, quando si era separata da Salih, ed era tornata sui propri passi ad al-Mirqab, più di vent’anni addietro. Nel turbine delle emozioni, a prima vista, le era sembrato di trovarsi in un altro luogo, in un altro tempo. Salih era Salih, e lei era quella che era stata in un’altra epoca. Tutto quel chiasso risaliva a un passato lontano.        

  Camminava con le sue cugine in un vicolo stretto, aveva visto arrivare una Jeep carica di uomini, mentre, alle loro spalle, la strada era bloccata da una grande folla.  Hulum le aveva gridato di tornare indietro e chiudersi in casa, Aisha ricordava soltanto la sua voce stridula e il suo grido cieco.  Quando era arrivata a casa, correndo, sua madre aveva sprangato la porta dell’abitazione, e le ragazze terrorizzate erano crollate. Entrando, aveva udito sussurri e parole spezzate: «Sciopero…Manifestazioni…»

  Per le strade di Doha, la folla[3] sventolava le bandiere egiziane, scandendo slogan che esaltavano l’Egitto e denigravano la Gran Bretagna. Ben presto, la manifestazione si era trasformata in un assalto alla sede del Delegato britannico, che le autorità locali non erano riuscite a contenere, mentre le guardie private del Delegato avevano poi disperso i dimostranti.

  Le manifestazioni erano dilagate, a Doha, nei dieci giorni successivi all’intervento britannico a Suez, in un’ondata che aveva infuocato il Paese. L’aggressione tripartita all’Egitto aveva scatenato l’indignazione popolare, i commercianti avevano chiuso i negozi nel mercato orientale di Doha, i manifestanti avevano sabotato gli oleodotti situati a undici miglia a est di Umm Bab. A mezzogiorno, lo sciopero si era esteso agli operai dell’industria, agli artigiani e ai lavoratori di alcune aziende, e, alle manifestazioni, si erano uniti gli studenti delle scuole di Doha.

  Il 2 novembre 1956, le manifestazioni avevano coinvolto l’intera città, tutti i quartieri, avevano attraversato il mercato, dirigendosi nuovamente verso la sede del Delegato britannico, ma le guardie private avevano respinto i dimostranti, che si erano spostati nella periferia orientale, per poi tornare indietro dopo due ore.

  Circolavano voci secondo le quali gli operai stavano progettando di colpire una stazione di rifornimento di energia elettrica a Masaieed. Una squadra, composta di ufficiali e agenti inglesi, era stata inviata sul posto, per impedire qualunque tentativo di sabotaggio. A metà di quella stessa giornata, dopo l’annuncio della caduta di Gaza, i Palestinesi si erano radunati nel centro di Doha, cantando e manifestando, nonostante i tentativi di dispersione da parte delle autorità locali.

  Gli scioperi dei lavoratori erano continuati fino al 3 novembre, diffondendosi in tutto il Qatar, e volontari palestinesi e qatarioti erano andati a combattere, in difesa dell’Egitto. Alcuni anni dopo, si erano verificati gli eventi del 1964[4].     

  Per molti anni, Aisha aveva pensato al momento del loro incontro – era stato proibito loro di incontrarsi, per dirsi addio o chiarire la situazione -, e dell’abbandono di un sogno che non era stato soltanto loro. Il sogno di Salih Bin Ahmed apparteneva a tutto il popolo del Qatar. In ogni ricordo, incontro, libro, Salih la introduceva in un universo di relazioni sempre più ampie, ogni volta che le raccontava un fatto, le leggeva la lettera di un amico, o le riferiva ciò che accadeva nel vasto mondo. Aisha era certa che il mondo esterno fosse sul punto di cambiare, che qualcuno la invitasse, chiamandola per nome, per darle un posto in cui poter guardare, imparare e vivere. All’improvviso, Salih era scomparso, e con lui il suo sogno… Il mondo intero era svanito. 

  Aisha era diventata la moglie di Jabir Bin Salem, era passata sulla sponda opposta, partecipava a riunioni in cui si parlava male di Salih e dei suoi compagni. Le toccava ascoltare un’altra versione dei fatti, una versione che raccontava una storia opposta degli avvenimenti dell’aprile 1956, del giorno della separazione e della sua ossessione.

  Aisha aveva cominciato ad ascoltare in silenzio, simulando indifferenza, perché non aveva certezze su quanto accadeva a lei e intorno a lei.

  In quei primi giorni, si era immersa nel suo tormento, piuttosto che rivolgersi alla creazione di una filosofia personale. Come aveva fatto quella sua vaga filosofia a trasformarsi da illusione a verità logica, a diventare un’idea che, con il passare del tempo, si era guadagnata l’indipendenza da lei che l’aveva concepita? Seppur in modo vago, Aisha era diventata meno dubbiosa circa i postulati che governavano la sua vita con pugno di ferro.

  Quando aveva lasciato il quartiere di al-Mirqab ed era partita con suo marito per Londra, per quel mondo occidentale colonialista, di cui Salih le aveva tanto parlato, portando in sé i semi del proprio annientamento, aveva trovato quel mondo capitalista altamente organizzato e protettivo. Aveva cominciato a setacciare i suoi ricordi di Salih, analizzandoli e filtrandoli, ma, alla fine, non era rimasto di lui, nella sua immaginazione, che il nome del primo amore. Un cumulo di ricordi veri e falsi, nei suoi sogni a occhi aperti, di una vita che non aveva realmente vissuto, e che non avrebbe vissuto mai…      

  Più tardi, si erano susseguiti gli eventi della sua vita, intermittenti, misteriosi e incomprensibili, e Aisha aveva seppellito ogni memoria, aveva sepolto con cura i ricordi, sotto il cumulo della sua nuova vita, aveva sparpagliato quei fatti, mischiandoli e confondendoli, sminuzzandoli in frammenti senza principio né fine, senza senso né logica. 

    Dopo l’arresto di Salih e di molti suoi compagni, a più riprese erano state inviate le truppe cammellate, anche la cavalleria era arrivata a pattugliare le strade e i mercati, molta gente evitava di uscire di casa. Aisha coglieva brani di conversazioni e notizie smozzicate che terminavano con la frase: “Dio ci preservi dal male!” Ma quale male? Qual era il male? E il bene?    

  Nessuno aveva mai saputo cosa avesse passato Aisha in quel periodo… Si era ammalata. Sua madre aveva detto: “La ragazza è impazzita”. Aveva legato il piede della figlia al proprio, per svegliarsi, se la ragazza avesse camminato nel sonno e fosse uscita di casa, all’insaputa sua e della famiglia!

  Per parecchie notti, Aisha aveva delirato, gridato nel sonno, orinato nel letto. Sua madre aveva conservato il segreto e, una sera, con il favore delle tenebre, l’aveva portata ai confini del quartiere, in una casa in cui a volte si leggeva il Corano, altre volte si praticavano riti oscuri.  La madre non aveva discusso la questione con il marito, aveva stabilito che la ragazza fosse stata colpita dal malocchio, gettato su di lei da una donna il cui cuore si era colmato d’odio al solo vederla, una donna pagana. Aveva informato il marito, quando questi aveva chiesto notizie della figlia: i due avevano semplicemente deciso di sgozzare un gallo, senza nominare il nome di Dio. Avevano cosparso di sangue ogni crepa e cavità della loro vecchia casa. Il padre, che rifuggiva i riti legati al politeismo, aveva esitato a lungo, ma, quando le condizioni di Aisha erano peggiorate, aveva chiesto perdono al Signore e, all’ora del tramonto, aveva sacrificato il gallo, senza nominare Dio, spargendone per la casa le piume e il sangue, e gettando lontano la carcassa, come se si trattasse di un maiale maleodorante. Più tardi, la famiglia aveva gustato la grande gioia, quella sera stessa, del fidanzamento di Aisha con al-Jabir Bin Salem al-Madaʿasi!

  L’incontro di Aisha con Salih Bin Ahmed sul piazzale, faccia a faccia, senza sfiorarsi o parlare, era stato un incontro improvviso e veloce, privo di qualunque significato. Poco dopo, Aisha vide un gruppo di studenti avanzare nella direzione opposta, verso il cancello dell’università, e uno di loro salire sulle spalle dei colleghi. Il gruppo cominciò a indietreggiare, con grida, canti e slogan, e si frappose tra lei e la figura di Salih. Aisha non sapeva davvero che cosa stessero gridando. Le voci le sarebbero echeggiate nelle orecchie per una settimana…

  Aisha si avviò verso il cancello esterno, camminando come una vagabonda senza meta.

  L’aveva vista Salih? Che cosa c’era vicino a lui? Aveva guardato nella sua direzione! L’aveva riconosciuta? Era cambiata fino a quel punto? Era talmente assorto negli eventi da non concederle neppure una rapida occhiata? Aisha si fermò, s’irrigidì, per offrirgli la possibilità di accorgersi di lei e di lanciarle uno sguardo curioso. Come poteva non vederla? Certamente non sarebbe potuta passare per una studentessa, non aveva l’età né l’aspetto di una studentessa! Come poteva non notare una donna di trent’anni, che indossava una sciarpa e vestiva con eleganza? L’occhio non avrebbe potuto sbagliare. Rappresentava un particolare stonato nel quadro dei disordini studenteschi scoppiati all’Università Americana di Beirut.  

  Aisha era smarrita e confusa, al punto di vedere Salih al centro di una folla di sconosciuti e di non scorgere qualcuno che conosceva e di cui si era dimenticata. Ahmed! Aveva dimenticato suo figlio… Non pensava che a Salih, figlio di al-Mirqab… 

  In quel posto, in effetti, non c’era nessuno, eccetto lei e Salih Bin Ahmed, i ricordi di quel tempo della sua vita avevano catturato ogni altro sentimento, ma la persona cui era stata sul punto di rivolgersi non l’aveva riconosciuta…

  La storia d’amore con Salih non era mai finita. Era un incendio che ardeva nel suo cuore, da quando Salih l’aveva introdotta in un livello superiore della sua coscienza, una coscienza nuova, opposta a quella dei fatti accaduti ad al-Mirqab, ma, al tempo stesso, identica a quella. L’aveva afferrata lo splendore di quella coscienza, l’avevano stregata la scoperta di un mondo esterno alle mura di quei quartieri bui, la morte della volontà, l’alternarsi di vita e morte dietro al-Sayf, laddove sorgeva e tramontava il sole, ad al-Mirqab. Ma presto il filo era stato reciso, Salih era scomparso, quella coscienza le era venuta a mancare, mescolandosi a orgoglio, pretese e confusione.

  Aisha aveva raggiunto la casa di suo marito, era cresciuto in lei il desiderio di rinnegare tutte le esperienze passate, per vivere la sola realtà alla quale riteneva di potersi abituare, ma, in casa di Jabir Bin Salem, Aisha non era stata che un oggetto decorativo di proprietà del marito, legato al quel posto. 

  Aisha aveva cominciato a ritirarsi in se stessa. I suoi sentimenti repressi, frustrati, si erano trasformati in un certo entusiasmo nascosto, si era sentita la giovane signora di una grande casa, aveva intessuto la sua fragile filosofia con i fili della disperazione, della fuga dalla realtà e delle illusioni, cercando di liberare la propria individualità dall’autoritarismo della mentalità collettiva. Aveva dovuto prendere la decisione fin dalla notte di nozze, quando sua madre le aveva consigliato di resistere allo sposo con tutte le sue forze, per confermare la sua castità e onorare così la famiglia. Sapeva che la sua resistenza si sarebbe conclusa con una resa umiliante, in una battaglia destinata a ripetersi ogni giorno della sua vita in casa di suo marito, una resa che, pur ben ricompensata, alla fine si sarebbe ripresentata in tutte le fasi della sua esistenza, in tutti le circostanze legate alla morale corrente. Aveva tentato di impedire l’annientamento della sua coscienza, considerandola la sua ultima fortezza, aveva fatto del suo io l’asse intorno al quale ruotava il mondo, mentre, in realtà, erano le cose a girare e ondeggiare intorno a lei, sotto forma di vanità, chiacchiere serali e soffi di vento. Aisha continuava a considerarsi al centro delle cose, stabilendo le sue regole private.

  Gli altri non avrebbero potuto toccare il suo cuore o arrestare il suo pensiero, né raggiungerla, giacché si era ritirata nelle profondità inaccessibili del suo essere. Si era creata una nuova Aisha, una presenza che avrebbe impedito al suo mondo di crollare.

  La cosa che Aisha riteneva di aver quasi realizzato, era in effetti la più irrealizzabile; quando pensava di essere riuscita nella sua impresa di allontanarsi dalle mentalità e dalla morale corrente, con tutto il proprio disprezzo, non aveva fatto altro che adattarvisi, identificandosi del tutto con la coscienza collettiva.  Anzi, ormai rappresentava uno splendido modello, un esempio perfetto di sottomissione, come se gli elementi dell’anima collettiva si fossero mescolati alle sue illusioni e paure personali. Tutto ciò che Aisha rifiutava, credendolo lontano da sé, in realtà s’inquadrava perfettamente nella sua mentalità, nelle sue relazioni e comportamenti pubblici e privati. Sotto la pressione della paura, si era trasformata fino a diventare esattamente come la volevano gli altri, era scivolata ancor più miseramente di quanto avesse temuto, evitando ogni maturazione personale. Mentre aveva puntellato la propria immagine familiare e sociale, si era formata convinzioni meschine e metodi retrogradi, proprio come fa il bambino impaurito, che nasconde il quaderno e dichiara di averlo perduto perché non ha finito i compiti.  Aisha dichiarava di aver perduto la sua vita per non sentirsi dire che altri ne avevano assunto il controllo. Aveva gettato via la sua vita con le sue stesse mani…      

  Aisha aveva capito molto presto che suo marito aveva amanti in ogni posto in cui andava, da Casablanca, a Baghdad, all’Europa. Senza dubbio, i tradimenti di Bu Salem ferivano la dignità di Aisha, soprattutto perché, pur trascurato e negligente nel nasconderli, gliene venivano sempre risparmiate le numerose conseguenze. Forse, in principio, Aisha era stata gelosa di Bu Salem, poi lui aveva cominciato a provocarla per vendicarsi di lei, infine, con il passare del tempo, Aisha era diventata indifferente fino alla freddezza.

  Lui, d’altronde, non si esimeva dal ricoprirla di regali. Questo era il solo modo con cui si limitava a esprimersi e a stringere il proprio controllo sulla vita di lei.

  Aisha aveva davvero una vita? La ragazza bella, previdente, animata da aspirazioni e aspettative elevate, non aveva fatto nulla della sua vita, l’aveva sprecata…  Dopo dieci nella casa della famiglia di suo marito, era riuscita a conquistarsi l’indipendenza in una casa propria, prima del Movimento Correttivo del 1972, quando il nome di Jaber Bin Salem era al vertice della vita pubblica. Ben presto, era stato nominato ambasciatore a Londra, e Aisha era partita dal Qatar. Quella era stata la svolta più importante della sua vita.


[1] L’emiro Khalifa Bin Hamad Al Thani prese il potere in Qatar nel 1972, dopo aver rovesciato, con un colpo di Stato, il proprio cugino.

[2] La guerra civile libanese è esplosa nel 1975.

[3] Agosto 1956.

[4] Nell’aprile del 1964 cominciarono le manifestazioni a sostegno della dichiarazione di Unione trilaterale tra Egitto, Siria e Iraq. A tali manifestazioni si unirono gli Yemeniti residenti a Doha, per chiedere al governo di ʿAbdullah al-Sallal la partecipazione all’Unione, dopo che l’Egitto aveva invitato all’adesione lo Yemen e l’Algeria. Il nipote del Delegato intercettò i manifestanti con i suoi veicoli e, dopo un’accesa discussione, aprì il fuoco su di loro, uccidendo un dimostrante. Dopo l’episodio, commercianti, lavoratori e rappresentanti tribali si unirono per manifestare congiuntamente. Fu annunciata la formazione del Fronte Nazionale, che comprendeva rappresentanti tribali, commercianti, operai e autisti di veicoli, sotto la guida di due capi, Nasser al-Masnad e Hamad al-Attiyah. Il Fronte Nazionale organizzò la marcia di Unità nazionale, per poi indire uno sciopero generale, della durata di due settimane, e rilasciare una dichiarazione pubblica che riferiva le richieste popolari di ogni settore della società. (Fonte: Tesi di dottorato di Moza al-Jaber).  

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