Articolo di Federica Pistono
Insieme al genere letterario del romanzo, nella narrativa siriana di prigionia di questo periodo appare anche il racconto breve. Racconti brevi sulla prigionia politica di quest’epoca sono quelli di Ibrāhīm Ṣamū’īl e di Ġassān al-Ğabā ī.
Ibrāhīm Ṣamū’īl, nato a Damasco nel 1951 da famiglia cristiana, residente ad Amman, è autore di innumerevoli raccolte di racconti brevi, alcuni dei quali tradotti in francese, in inglese, in bulgaro e in italiano. [1] Arrestato per motivi politici, trascorre in carcere diversi anni, maturando la sua esperienza di autore di racconti brevi. La sua prima raccolta, Rāi’ḥat al-ḫaṭū al-ṯaqīl (L’odore del passo pesante), scritta in prigione[2] è pubblicata nel 1988, seguita dalle raccolte al-Naḥnaḥāt (Colpetti di tosse, 1990), al-Wa r al-azraq (La pietraia azzurra, 1994) e Faḏāi’āt min waraq (Spazi di carta, 1999). Da tutte le sue opere traspare con chiarezza l’atteggiamento critico nei confronti del regime e la condanna recisa della dittatura. La raccolta al-Naḥnaḥāt è dedicata alla sua esperienza di prigionia, consumata negli anni 1977-1981.
In un’intervista rilasciata a Miriam Cooke nel 1996, [3] l’autore dichiara che la prigione può rappresentare una chiave per la creatività come pure una trappola. L’esperienza della scrittura sul periodo passato in carcere è risultata per lui un lavoro estremamente difficile, a causa del timore di apparire esagerato ai lettori, ritenendo che non avrebbero considerato credibili i racconti. Affema Ibrāhīm Ṣamū’īl nell’intervista rilasciata a Miriam Cooke:
«Writing, especially this kind of writing, is like extracting oil out of the soil and then purifying it. It is the search foe the line, what I call the barzakh, that both separates but also brings together the explicit and the hidden. It is the breath that makes one person a writer and the other cook. My challenge to myself was to convey the absolute simultaneity of life and death that is part of the prison experience. (…) How could I show the way dreams persist even when everything else has stopped? What I learned was that non one can stop thoughts and dreams. I still deam. Maybe I’m Don Quixote, that crazy guy who couldn’t stopo dreaming. Or maybe it’s impossible to eliminate resistence whatever form because it is a law of nature». 203
Il titolo del racconto al-Naḥnaḥāt, esteso all’intera raccolta, evoca la condizione del prigioniero in una cella di isolamento. Dopo un periodo di solitudine e di angoscia in una cella angusta e soffocante, il detenuto scopre di poter comunicare con l’occupante della cella vicina. Comincia così a tossire leggermente, come per schiarirsi la voce. Quando il vicino risponde è come se le pareti della cella si schiudessero davanti a lui. Quei “colpetti di tosse” illuminano le tenebre. I prigionieri cominciano così una corrispondenza senza che le guardie se ne accorgano. Un giorno, quando il prigioniero inserisce l’unghia in una fessura del legno della porta per ingrandire la fenditura, vede la guardia. Il vicino si schiarisce la voce, ma il protagonista non risponde. Il vicino continua a tossire. D’un tratto, la guardia irrompe nella cella del vicino ma tutto quello che può sentire è l’eco di quella tosse, poi il silenzio.
I “colpetti di tosse” tornano in altri racconti. Costituiscono un linguaggio senza parole che permette ai prigionieri di conservare la propria umanità. Il significato di tale linguaggio non è intelligibile ma è la sola forma di comunicazione concessa dal regime dell’isolamento.
Anche la raccolta Rāi’ḥat al-ḫaṭū al-ṯaqīl è dedicata all’esperienza della prigionia.
Nel racconto Rāi’ḥat al-ḫaṭū al-ṯaqīl, che dà il titolo all’intera raccolta, è trattato il tema del cibo in prigione. Il protagonista della storia, pur molto affamato, non riesce a mangiare il pasticcio a base di pomodori e cavolfiori a causa dell’odore rivoltante del piatto.
In un altro racconto di questa raccolta, una donna aspetta in una strada il marito ricercato dalla polizia. Quando si accorge di essere seguita da uno sconosciuto, per non mettere in pericolo il marito che si sta avvicinando a lei, la donna non può fare altro che continuare a camminare. Sentendo i passi pesanti dell’inseguitore avvicinarsi sempre più, non ha altra alternativa se non quella di passare accanto all’uomo che ha atteso per due anni senza rivolgergli la parola. Allontanatosi l’inseguitore e il pericolo, la donna torna al luogo dell’appuntamento, ma il marito è scomparso. Alla protagonista non resta altro che tornare a casa, a vivere di attesa e di speranza, inghiottita dal vuoto dell’assenza di lui. Così M. A. Atassi descrive l’assenza del prigioniero politico:
«From the prospective of their families, the absence of political prisoners is unlike the absence of the dead aor the traveler. It is a forcible absence, and you know when it starts but do not know when i twill end.It is a sordid absence, neither temporary nor permanent. It is a a suspended absence, where time moves very slowly and heavily, as the family patiently awaits the return of the loved one. Therefore it is an absence marked by a sense of presence, the powerful presence of the imprisoned individual in the minds of those he leaves behind. It is a killing absence that has the tast of bitter despair, a despair that creeps like cancer into the lost hopes of family members, between the possible and the impossible. It is an absence that cannot be adapted to, accepted, or internalized by the family.It is an immediate absence, temporary, deceiving, and could last a generation». [4]
Molti dei racconti brevi di Ibrāhīm Ṣamū’īl sono dedicati alla moglie Marmūš, storie di donne che, dall’esterno del carcere, condividono l’attesa e la sofferenza dei propri uomini o, prima o dopo l’arresto di questi ultimi, preparano incontri clandestini con i ricercati, sempre temendo di sentire la polizia bussare alla porta.
Un altro racconto della raccolta tocca il tema della visita dei familiari al prigioniero, una visita attesa, bramata, sognata. Ma il recluso sa perfettamente che alla sua famiglia non è permesso varcare i cancelli della prigione, così come egli stesso non può avvicinarsi ai suoi cari. L’unico mezzo per realizzare un contatto anche soltanto visivo è quello di arrampicarsi fino alla grande finestra del bagno comune, sporgere le braccia attraverso le sbarre di ferro della finestra e farsi riconoscere dai familiari che aspettano in lontananza. Pur sapendo che il contatto potrà essere esclusivamente costituito da un saluto attraverso le sbarre, il protagonista si prepara con gran cura alla visita, indossando i vestiti migliori che possiede e cospargendosi perfino di profumo. Ibrāhīm Ṣamū’īl dipinge un’immagine che egli stesso definisce masāfat al-šawq[5], la distanza della nostalgia, quella lontananza in cui si infrangono desideri e sogni.
Anche in questo racconto, come in quello in cui i detenuti comunicano attraverso i colpi di tosse e quello in cui la moglie comunica con il marito mediante uno sguardo, la comunicazione è non verbale. Quando il prigioniero è spogliato di tutto, non gli resta che la comunicazione senza parole, basata su sguardi, colpi di tosse, saluti con le braccia dall’alto di una finestra munita di sbarre di ferro. Tutti questi atti sono da considerarsi alla stregua di mezzi ai quali il recluso ricorre per conservare la propria umanità negata.
Mamdūḥ Adwān osserva come Ibrāhīm Ṣamū’īl ci trascini nella prigione o nell’atmosfera creata dalla paura della prigione e come ci costringa a riconoscere la somiglianza tra la reclusione ufficiale e i vincoli soffocanti della nostra esistenza quotidiana; questo tipo di letteratura ci riconsegna la nostra umanità, perduta tra sofferenze, speranze e piccoli sogni. [6]
Ġassān al-Ğabā ī, nato nel 1952, regista di opere teatrali, è imprigionato per motivi politici tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, trascorrendo otto anni nelle carceri siriane, fra le quali Tadmur e Ṣaydnāyah. In prigione compone una raccolta di racconti brevi intitolata Aṣābi al-mawz (Dita di banane, 1994)207, dedicata alla sua esperienza di detenuto politico.
L’arresto dell’autore avviene all’indomani degli Avvenimenti di Ḥamāh, quando le celle delle carceri traboccano di prigionieri, costretti a dormire su un fianco per mancanza di spazio. La raccolta racconta non solo le sofferenze patite dall’autore, ma anche la saldezza e il coraggio dei compagni di prigionia nell’affrontare la durissima prova.
Come nota Miriam Cooke, [7]l’opera, pur composta da un oppositore politico del regime e pur descrivendo gli orrori e le torture paticati nelle prigioni siriane, è pubblicata a cura del Ministero della Cultura siriano. Il Ministero intende ovviamente dimostrare la propria magnanimità nei confronti del dissenso politico. Naturalmente il libro risultava e risulta tuttora introvabile nelle librerie della Siria. I racconti, allusivi e oscuri, rappresentano quella che può definirsi una “prigione infernale”, un luogo in cui si entra per morire di stenti e di terrore. Le celle sono sovraffolate, buie, pullulano di insetti. Particolarmente agghiacciante risulta la descrizione della sāḥat al-tanaffus, (la piazza del respiro, il cortile in cui i prigionieri si recano per l’ora d’aria). Il luogo è raffigurato come un vasto cortile in cui, sotto il sole cocente, i detenuti sono lasciati a soffrire sotto la canicola, mentre gli insetti annidati negli abiti e nei capelli li tormentano, eccitati dal calore. Ma il cortile, con la sua luminosità accecante che si contrappone all’oscurità della cella, è anche il luogo in cui di notte vengono giustiziati i prigionieri mediante impiccagione.
Nei racconti, l’autore immagina che il cortile sia percorso da un esercito di scheletri neri striscianti sul nudo piazzale di cemento, o da un esercito di sardine essiccate sotto il sole rovente del deserto. Così al-Ğabā ī immagina i compagni di prigionia impiccati di notte dalle guardie.Il prigioniero impiccato è rappresentato mediante la metafora del piccione impiccato. In un racconto, i prigionieri sono raffigurati come gocce di olio che scivolano lungo i muri.
L’ambientazione, con la descrizione del cortile del carcere in cui di notte vengono impiccati i detenuti, richiama immediatamente alla mente la prigione del deserto, Tadmur, in cui l’autore trascorre quattro anni, come pure il contrasto tra gli esterni luminosi e gli interni tenebrosi rimanda subito a quel penitenziario. In altri racconti si ravvisa la memoria del carcere di Ṣaydnāyah. Lo stile dei racconti è onirico, le scene rappresentate rivestono spesso i contorni dell’incubo. La narrazione è molto lontana dal piatto realismo socialista che caratterizza il romanzo al-Siğn di Nabīl Sulaymān. In Aṣābi al-mawz non si vuole raffigurare l’eroismo dei prigionieri, ma il loro terrore, la barbarie cui sono sottoposti. L’”ideologia del carcere”, di cui parla Yāsīn al-Ḥağğ Ṣāliḥ, comincia a incrinarsi.
Non è possibile non ricordare in questa sede il poeta Farağ Bayraqdār con la sua raccolta di poesie di prigionia Ḥamāmat muṭlaqat al-ğanāḥīn (Una colomba dalle ali libere, 1998). [8]
Nato a Homs nel 1951, attualmente residente in Svezia, il poeta, accusato di affiliazione al parito comunista, sconta quattordici anni di carcere (dal 1987 al 2000), di cui sei anni in regime di isolamento, ed è rilasciato in cambio di una rinuncia alla militanza politica. In carcere, prima nella prigione di Tadmur poi in quella di di Ṣaydnāyah, compone quattro raccolte di poesie, fra le quali Ḥamāmat muṭlaqat al-ğanāḥīn e Anqād (Rovine, composta negli anni Novanta ma pubblicata solo nel 2012). [9]In carcere il poeta scrive anche un diario di prigionia, Ḫaynāt al-luġah wa al-ṣamt (I tradimenti della lingua e del silenzio, composto negli anni Novanta ma pubblicato nel 2006).[10]
Nell’opera l’autore narra le tappe fondamentali della sua prigionia. Come spiega Bayraqdār nel testo, la scelta del titolo per il diario intende evedenziare come nessuna lingua possa davvero esprimere l’esperienza del carcere e della tortura. La lingua è tradimento perché non riesce a comunicare la realtà, secondo l’autore, ma anche il silenzio è tradimento perché chi ha vissuto un dramma di simile entità non può tacere, ha il dovere di informarne il mondo.
In Tadmuriyyāt, una sezione del suo diario di prigionia, 212l’autore decide di pubblicare l’elenco delle torture alle quali è stato sottoposto. Descrive il processo di disumanizzazione del recluso, che comincia nel momento in cui il prigioniero perde il suo nome per diventare un numero corrispondente a quello assegnatogli dall’amministrazione carceraria, si aggrava quando il detenuto vede un compagno costretto a ingoiare un topo. Dopo cinque anni passati senza notizie del mondo esterno, l’autore riceve la fotografia di una ragazza e capisce che deve trattarsi di sua figlia. In quel momento, sente risvegliarsi la sua umanità.
La raccolta poetica Ḥamāmat muṭlaqat al-ğanāḥīn è stata ideata e imparata a memoria dall’autore perché, nel carcere di Tadmur, non aveva a disposizione carta né penne. Scritte poi sulle cartine per le sigarette, le poesie sono state consegnate dal poeta alla figlia nel corso di una visita in prigione. La figlia ha quindi dato inizio a una campagna internazionale per la liberazione del poeta, campagna aiutata dalla traduzione in francese dei versi della raccolta da parte del poeta marocchino Abdellatif Laabi.
Con questa raccolta, la poesia diventa un esercizio del prigioniero per conoscere e proteggere la propria anima, per salvaguardare la propria umanità e conferire senso e valore all’esperienza della vita in carcere.
I temi principali della raccolta ruotano intorno al pensiero delle donne, alle visioni del recluso, alla trasfigurazione della cella a una più generale rivoluzione della natura, alla problematica politica, alla condizione del prigioniero. La tematica delle donne è presente nella poesia Āytān (Due sigilli), in cui l’autore esprime la nostalgia per le sue “due gazzelle”, la moglie e la figlia: Smetti mia nostalgia/ di non avere approdo.[11] Il pensiero della donna è fonte di consolazione per il poeta: Lei sola dissotterra l’anima, è presente nell’assenza del carcere, quasi le stelle fossero tue schegge. [12]
Emerge poi la tematica politica con la recisa opposizione del poeta nei confronti del regime autocratico e di un governo che trasforma il suo paese in una fossa comune più che in una nazione. In Hikāyah (Storia) il poeta, pur pervaso dallo sgomento per la solitudine della cella, si rivolge al tiranno:
Scrivi sui muri/ riferisci al sultano tuo signore/ che una cella non è più stretta/ della sua tomba/ che una cella/ non è più corta/ della sua vita. [13] Si tratta di un “sultano” che, per il poeta, è indegno perfino di sepoltura.
E ancora in Wahwahāt (Gemiti) si rivolge ancora al dittatore: Tu che mi spezzi la schiena. [14]
La prigione è raffigurata come un luogo senza tempo e pieno di contraddizioni, in cui le ore e i giorni si trasformano in un continuum di visioni drammatiche, come in Rū’yā (Visione): Non ero né vivo né morto (…) Ah, come mi ha pesato il luogo stretto. [15]e, in Qaṣīdat al-ḥuzn (Poesia del dolore): Il blu del profondo è dolore/ e il profondo del blu è dolore. [16]Le visite dei familiari rappresentano un momento di rinascita ma sono troppo brevi, fugaci, al punto che, quando la visita termina: Le finestre del carcere chiudono gli occhi/ e le pareti si coprono di/un colore di estremo pudore. [17]
La raccolta non nega però la possibilità, in futuro, di una vita migliore e si chiude inaspettatamente con poesie più serene, come al-Dumu ah (La lacrima): Può la lacrima/ essere pietra/ o essere fiore/ diglielo pure/ io e te ne siamo testimoni/ da lungo pianto. [18]
Le altre raccolte sono inedite. Dalla raccolta Anqād, Elena Chiti ha tradotto la poesia Mātrūškā suriyyah (Matrioska siriana), sulla condizione di oppressione politica della Siria e del prigioniero politico:
Matrioska siriana
Se il cielo è un velo
La terra è un velo
Il mio paese è un velo
Il carcere è un velo
Il silenzio è un velo
La poesia è u velo
E io sono un velo Come faccio a vedere Dio E Dio a vedere me?
Carcere di Sednaya, 1997. [19]
È importante notare come in queste opere, composte tra gli anni Settanta e gli anni Novanta, siano già presenti molti degli elementi che, in diversa forma e misura, influenzeranno la narrativa siriana di prigionia nel primo decennio del nuovo millennio fino a diventarne tratti tipici.
[1] In italiano sono stati tradotti i seguenti racconti: Ibrahim Samuel, La pietraia azzurra, 1968, e Due dita di carta, 1993, in Scrittori arabi del Novecento, Milano, Bompiani, 2002, traduzione di I. Camera D’Afflitto; Il buio, 1994, in Voci d scrittori arabi di ieri e di oggi, Milano, Bompiani, 2017, traduzione di I. Camera D’Afflitto.
[2] La raccolta è tradotta in italiano come: Ibrahim Samuel, L’odore dei passi pesanti, Palermo, Edizioni della battaglia, 1997, traduzione di M. Mansur e R. Russo, introduzione di M. Aduan, postfazione di A. Manu.
[3] Cfr. M. Cooke, Dissident Syria, op. cit., pp. 96-97. 203 Ivi, p. 111.
[4] M. A. Atassi, The Other Prison, in Al-Nahar Cultural Supplement, July, 11, 2004, translated by Kamal Dib in Al-Jadid 10.49.
[5] Cfr. M. Cooke, Dissident Syria, op. cit., p. 198.
[6] Cfr. M. Aduan, prefazione a: Ibrahim Samuel, L’odore dei passi pesanti, op. cit. 207 Ġ. al-Ğabā ī, Aṣābi al-mawz, Dimašq, Manšūrāt wizārat al-ṯaqāfah, 1994.
[7] M. Cooke, Dissident Syria, op. cit., p. 199.
[8] La raccolta è stata tradotta in francese dal poeta marocchino Abdellatif Laabi come: Faraj Bayrakdar, Ni vivant, ni mort, Marseille, Al Dante, 1998. In italiano la raccolta è tradotta come: Faraj Bayrakdar, Il luogo stretto, Roma, Nottetempo, 2016, traduzione di E. Chiti.
[9] F.Bayraqdār, Anqād, Bayrūt, al-Jadid, 2012.
[10] F.Bayraqdār, Ḫaynāt al-luġah wa al-ṣamt, Bayrūt, al-Jadid, 2006. 212 Ivi, p. 57-81.
[11] F. Bayrakdar, Il luogo stretto, op. cit., p. 15.
[12] Ivi, pp. 31-32.
[13] Ivi, p. 19.
[14] Ivi, p 89.
[15] Ivi, p 35.
[16] Ivi, p. 49.
[17] Ivi, p. 75.
[18] Ivi, p. 113.
[19] In F.Bayraqdār, Anqād, Bayrūt, al-Jadid, 2012, traduzione di E. Chiti, pubblicata su SiriaLibano (www.sirialibano.com) del 20 gennaio 2012.
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