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Il terremoto di Tahar Wattar

Traduzione dall’arabo (Algeria) di Jolanda Guardi

Titolo originale: الزلزال  1975

©Jolanda Guardi per la traduzione. I diritti di traduzione sono stati assolti da accordi tra l’autore e la traduttrice.

La presente trduzione de Il terremoto è stata condotta sull’edizione originale del 1974 fornitami direttamente dall’autore. Attualmente in commercio esiste un’edizione del 2004, edita da ENAG Algeri, che differisce leggermente da quella da me utilizzata e nella quale, in particolare, sono state omesse la dedica e la Prefazione.

Capitolo primo

1. Bab al-Qantara

– Gli odori di Costantina ti accolgono, ti accompagnano, ti inseguono, ti prendono alla gola; li si riconosce ancor prima di aver fatto due passi, ti danno i nervi e ti rallegrano il cuore.

Šaykh Bu al-Arwàh, aprendo la portiera dalla macchina, esprimeva a voce alta la sua prima impressione. Aveva girato a lungo e aveva faticato a trovare un parcheggio sul piccolo spiazzo di fronte al ponte di Bab al-Qantara.

Trasse un profondo sospiro, scrollò gli abiti e guardò con calma l’orologio, per esprimere dopo un po’ una considerazione:

– Meno un quarto… Nove ore da Algeri a qui. Una buona media con questo caldo. A Costantina, come alla ka‘ba, arrivare di venerdì porta bene.

Parcheggiò e, dopo aver chiuso le portiere, imboccò via Belm’hidi, poi si fermò. Si guardò intorno per un attimo, poi guardò l’auto e tornò indietro per verificare di aver effettivamente chiuso le quattro portiere.

Il treno fischiò. Trasalì appena per il fischio, che gli sembrò più straziante del necessario, più lungo di quanto dovesse.

Ah. Un allarme. No. Un fischio normale, con l’ansia dei viaggiatori quando entrano in città.

Fece scorrere lo sguardo sul ponte, ritrovò la calma malgrado il traffico e la folla disordinata di uomini e donne in movimento.

– Gente e auto che si muovono tutte insieme, avevo quasi dimenticato com’è la vita a Costantina.

Sentenziò, poi aggiunse, prima di guardare verso l’alto spostandosi con calma:

– Questo ponte è il più bello dei sette di Costantina. Ampio e breve, l’essere umano dimentica pian piano il baratro che si trova tra esso e il fiume.

Tutto, da questo punto di vista, sembrava come al solito. Il verde degli alberi. Le case diverse fra loro e facili da distinguere. Lì la scuola secondaria e più in là l’ospedale, laggiù il magazzino dei cereali dal profilo eccentrico, costruito al solo scopo di servire a prova perenne del fatto che la città, fondamentalmente, è un centro agricolo, o per segnalare agli abitanti che esistono spazi di stoccaggio per il grano e l’orzo, e che se si trovassero sotto assedio prolungato non morirebbero di fame. E là… ah. La statua alata di Santa Giovanna d’Arco, pronta a spiccare il volo per chissà dove da molto tempo. Poi… il dio di Costantina, il ponte sospeso.

Il cuore di šaykh ‘Abd al-Majid Bu al-Arwàh ebbe una vibrazione quando vide il ponte sospeso; rivolse lo sguardo all’ospedale, al magazzino e alla scuola, alle ville e agli alberi, chiedendosi:

– Non è più pulito del solito, più luminoso, più variopinto? Il color crema europeo non è svanito? E non sembra anche che sia proteso in avanti come se volesse sporgersi sulla profondità del vasto abisso? Non so perché wadi ar-Rimàl ha scelto di aprirsi nel cuore di una città così preoccupata di se stessa.

Si levò l’adhàn e il cuore di ‘Abd al-Majid Bu al-Arwàh ebbe una stretta, si voltò decidendo di continuare a salire seguendo la strada permeata dai diversi odori delle piante, dei cibi e dei profumi e dall’andirivieni delle auto e della gente da tutte le direzioni.

– Non c’è potenza né forza se non in Dio! Cosa spinge la gente a muoversi a piedi in questo modo in questa città? Sono arrivato in auto sin qui perché temevo che, se l’avessi lasciata in mezzo alla strada, l’avrebbero travolta come mosche… nel giorno del giudizio. Cosa muove questa gente a spingere così, in un movimento disordinato, scendono, salgono, si incontrano, si separano, leggeri, pesanti, con questo caldo?

Davvero, avevo cominciato a dimenticare la città.

No, la verità, la verità è che la città si è trasformata dalla testa ai piedi. Al tempo dei francesi era tranquilla. Tranquilla in un modo che colpiva a prima vista. La vita vi si insinuava pian piano con lo spuntar del sole e fioriva tra le dieci e mezzogiorno, poi, improvvisamente, si chetava sino alle tre, per riprendere a crescere, esplodere tra le cinque e le nove, quando uscivano da scuola gli scolari delle elementari e gli studenti delle superiori e degli istituti, le luci scintillavano e si liberavano i profumi delle ragazze europee e israelite che riempivano le strade, come huri graziose e gioiose.

Tutto è cambiato. Aveva ragione Ibn Khaldun quando…

No, no. Abbiamo combattuto perché l’Algeria diventasse araba e non lo rimpiangeremo.

Ci siamo opposti a quell’opinione di Ibn Khaldun il giorno dell’indipendenza e negli anni a seguire, anche quando hanno cominciato a uscire dal seminato, proponendoci ogni volta un’idea presa qui e là, ma hanno esagerato… hanno esagerato, questa è la verità.

Ci hanno traditi. Ci hanno traditi. Hanno cominciato con il socialismo, prima sole lettere, poi ci hanno insufflato un’anima finché non è diventata una parola, cioè – inevitabilmente – una cosa, poi eccoli improvvisamente.

No. No.

La libertà è libertà. L’indipendenza è indipendenza. Il potere è potere. L’autorità è autorità. Tuttavia, lacerare così la vita, fino al limite del male.[1] No.

Abbiamo letto la scienza sacra, ci siamo seduti con i sapienti, e abbiamo lottato con šaykh Ben Badis, che Dio lo accolga nella sua grande misericordia, siamo esperti dei quattro madhhab, e non abbiamo mai incontrato un male così.

No. I beni sono di colui che li possiede e la proprietà è riconosciuta nel santo Corano…

E poi. No.

La gente, soddisfatta della propria condizione, si ritiene sazia dei doni che Dio le ha concesso. Ma, anziché riconoscerlo, fa tutto ciò che può per affrettare l’arrivo dell’Ora.

Uno di loro lo spinse con una spallata, facendolo scendere dallo stretto marciapiede, proprio mentre passava un’auto che frenò davanti ai suoi piedi, stridio di pneumatici, fermata brusca, colpi di clacson, proteste, vocio di bambini.

Si girò a guardare di qui e di là, poi trovò un varco tra la folla, riuscì a svincolarsi ed estrasse l’orologio con calma.

– Non c’è tempo da perdere, si disse, e decise di affrettare il passo per attraversare la breve distanza che lo separava dalla grande moschea, ma una voce particolare lo costrinse a fermarsi e attirò tutta la sua attenzione. Chi parlava urlava protestando:

– La città soffoca, ya rabbi Sidi, soffoca. Cinquecentomila abitanti. Al posto dei cento cinquantamila al tempo del colonialismo, mezzo milione ya rabbi Sidi. Mezzo milione che si spinge e si ammassa su questa roccia. Hanno lasciato i villaggi e le campagne e hanno invaso la città, la riempiono, tanto che non si può più respirare. Succhiano persino l’aria. E nell’aria hanno lasciato solo il sudore delle loro ascelle.

Oh Signore del Vulcano, Sidi Ràšid, mostrati e pronuncia la sentenza. Scuoti la roccia e porta nella caduta questi empi, questi scellerati, questi maligni. È tempo che ti mostri, Sidi Ràšid. È tempo. Sei stato fin troppo paziente, Signore del Vulcano.

Cercò da dove proveniva la voce finché lo vide, un vecchio con un lungo tarbùš rosso fermo davanti all’ingresso del caffè Najma, alzava le mani verso il cielo imprecando.

Fece scorrere lo sguardo sulla lunga fila che stazionava davanti all’entrata dell’ascensore, poi sullo stretto ponte sospeso su cavi d’acciaio, poi sul profondo baratro che divideva le due rive del fiume, come una frontiera all’interno della città, poi sulla roccia morbida che scendeva sui due fianchi del baratro. Tra le curve puntellate di alberi e cavità. Colombe a chiazze grigie volavano intorno, come fiocchi di neve soffice trasportati dal vento.

Provò una strana sensazione, sentì che un certo colore, molto scuro, si stava infiltrando nel suo cuore. Tentò di bloccare la sensazione, o il colore, ma poi cominciò a parlare a voce alta fra sé, come se, improvvisamente, avesse dimenticato cosa stava succedendo:

– Dice che hanno lasciato i villaggi e la campagna e hanno invaso la città. Cosa voleva che facessero nei villaggi e nelle campagne? Che assalissero le proprietà della gente e se ne impossessassero? Sono nullatenenti e stanchi di lavorare la terra, sono venuti in città perché il governo dia loro un lavoro. Il governo deve costruire fabbriche per loro e farli lavorare. O almeno dovrebbe spedirli all’estero, permetter loro di andarsene, cosa che è diventata sempre più difficile. No. Invece ha deciso di occuparsi della gente pia, alla quale Dio ha concesso la terra.

Maledetti…

I cittadini sono tutti uguali. Vogliono che la città appartenga solo a loro e non si fanno scrupolo di impedire agli estranei di impossessarsene.

All’entrata della grande moschea šaykh ‘Abd al-Majid Bu al-Arwàh fissò le facce dei mendicanti, uomini e donne, che stavano in una lunga fila contro il muro. Un’altra cosa, non la solita in città.

Anche i volti sono particolari a Costantina. I tratti variano da persona a persona così come il fisico. Al tempo del colonialismo i tratti erano generici: europei e arabi. Adesso no. Oggi la differenza tra lo šawi proveniente da ‘Ayn Baydà’ (o da ‘Ayn Mallìla), o Batna, Khanšla, Šalghum al-‘Ayd è chiara e la differenza del farjiwi che arriva da Fajj M’zàla, al-Malìb o al-Qalìb con tutte le varianti o da Skikda o fra gli Zanati e gli ‘Azzabi è chiara.

L’aspetto, come gli odori, rivela la loro vera natura in modo evidente in questa città, sentenziò. Spinse con forza lontano la mano di una mendicante che gli sbarrava il passo, si tolse le scarpe e si diresse verso la porta dicendo disgustato:

– Toglimi le mani di dosso, donna. Non c’è forza né potenza se non in Dio. Le disgrazie degli uni sono la fortuna degli altri Da dove saltano fuori, perché non tornate ai vostri villaggi e alle vostre campagne?

– Che possa capitarti una disgrazia, se Dio vuole. Il disastro. Come se ci portassi sulle tue spalle, come se fossimo la tua soma, gli urlò la donna, irata, nel dialetto chiaro della frontiera orientale, Šaykh ‘Abd al-Majid Bu al-Arwàh si voltò improvvisamente e si fermò a fissarla per un po’, poi rinunciò a quel che aveva in mente di dirle.

Avrebbe voluto dire a lei e agli altri:

– Una roccia ci sopporta tutti. L’acqua fa il suo lavoro da ogni lato, Dio solo sa quanti buchi e quante fornaci ci sono nel suo ventre e in ogni momento, nel suo modo particolare, potrebbe annunciarci quanto ci trovi pesanti.

Notò di nuovo le braccia alzate dell’uomo col tarb che stava ancora urlando davanti all’ingresso del caffè Najma:

Signore del Vulcano, Sidi Ràšid, spazza via tutta questa gente, la loro empietà e la loro corruzione.

Si ricompose e riprese il cammino verso la moschea con le scarpe in mano mentre lo strano colore, cupo e ombroso, gli si stava formando dentro, attanagliandolo.

Quando si riprese per compiere le due rak‘a per la moschea, immaginò il grande riformatore šaykh Ben Badis sul pulpito, con la sua espressione animata, non con quel volto fisso che gli artisti erano soliti dipingere in modo idealizzato, artisti che pensavano che la conoscenza fosse meglio espressa da un atteggiamento meditativo e idiota e da una dignità ingenua piuttosto che dal dinamismo e dalla curiosità intellettuale.

Gli sembrò che quell’immagine di Ben Badis fosse molto diversa da quella che egli stesso aveva serbato del venerando šaykh negli anni dopo la sua morte, con tutto quel che era successo in quegli anni.

Era estraneo a noi tutti, nonostante il grande entusiasmo che tutti avevano per lui. Era come un fiume in piena ogni parte del quale scorre verso la sorgente mentre noi…

Non voleva ammettere che una tale verità fosse così evidente nella vitalità dell’immagine di Ben Badis. Si accontentò di affermare:

– Se fosse vivo, avrebbe una grande influenza su di noi. Ma la religione è religione e nient’altro. Religione è essere fedeli ai nostri avi. Ogni innovazione è smarrimento.

Doveva pronunciare la tahiyya e smise di pensare a Ben Badis. Il movimento del suo indice destro lo aveva fatto spostare automaticamente di lato a velocità inusitata. Poi aveva cominciato ad aumentare gradualmente il movimento fino a che non si era fermato. Improvvisamente aveva cominciato a muoversi su e giù, avanti e indietro fino a che non si era fermato per un momento solo per muoversi di uno strano moto circolare.

– Che Dio maledica Satana il sussurratore furtivo.[2] È lui che ha impresso al mio dito questo movimento, che è stato all’origine dell’espulsione di quell’allievo dalla classe. Chissà cosa ne è stato di lui.

Gli studenti lo chiamavano il filosofo. Io lo chiamavo l’eretico. Non provavo nessuna simpatia per lui a dispetto dei suoi modi gentili. Più cercava di avvicinarsi a me e di parlarmi, più sentivo di stare di fronte a qualcuno che poteva leggermi dentro. Pensavo di essere faccia a faccia con un nemico. Solo il Dio sopra di noi conosce i segreti, ma il male eretico può guardare direttamente nelle persone e penetrare nelle loro anime.

Un giorno in classe mi chiese: Signore, Dio, Signore dell’universo, colui che determina i destini di tutti i pianeti dei cieli e della terra trova tempo sufficiente per ispezionare il movimento di ogni dito indice durante la preghiera? Lo offende se il movimento è su e giù anziché laterale? E si preoccupa del credente il cui dito o la cui mano è tagliata?

Ho lasciato che finisse la domanda poi l’ho assalito: Sei espulso. Giuro sulla testa del Profeta at-Tahar, intercessore per tutti i musulmani, che sei definitivamente espulso. Fuori di qui, figlio di Satana.

Tossì. Poi raccolse la sua cartella e lasciò la moschea orgoglioso a testa alta.

Che Dio maledica Satana. Continuo a fare lo stesso movimento. Questo incidente è accaduto ventitré anni fa e ora ritorna sul mio dito.

Si appoggiò al muro della moschea e, mentre cercava di rimettersi le scarpe, si strinse lo stomaco con entrambe le braccia. Il sudore gli colava sul viso. I grandi occhi sporgenti si spalancarono sempre di più e le labbra si mossero a recitare una preghiera. I muscoli della faccia si tesero poi si rilassarono.

– No, questo duro[3] è caduto dalla mia tasca.

– No, dalla mia.

– O amato di Dio.

– Che Dio vi salvi e vi protegga.

– O Signore.

– C’ero prima io.

– No, io.

Le grida dei mendicanti gli spaccavano le orecchie e il suo naso veniva sottoposto a dura prova: l’odore di terra putrida e dei corpi dei mendicanti, quello delle teste di montone, delle zallabiyyadiventate rancide a forza di essere arrostite, le emanazioni delle bucce di fichi d’India, il profumo dei fiori di gelsomino.

– A Costantina i rumori, gli odori e i tratti del volto hanno una loro personalità. Mi stupisco di averci fatto così poca attenzione al tempo del colonialismo.

Ma no, è la città che è cambiata, è sommersa dalla gente. Mezzo milione su una roccia.

No. È troppo.

Di nuovo, sentì l’onda nera insinuarsi dentro di sé. Nella khutba del venerdì l’imam, anziché porre l’accento sulla pietà, ha parlato loro del terremoto. Ne ha sottolineato l’importanza e la gravità ricordando che “Il Giorno in cui lo vedrete ogni femmina gravida abortirà. E vedrai ebbri gli uomini mentre non lo saranno”.[4]

Stupiti e inquieti, il colore scuro invaderà gli spiriti… l’Altissimo ha annunciato tutti questi segni, preparati per l’Ora del Terremoto.

– Che Dio ti venga in aiuto, disse a una ragazzina rimettendosi in tasca la moneta: aveva cercato invano un duro, aveva trovato solo pezzi da venti, dieci e venticinque centesimi.

Affrettò nervosamente il passo battendosi il petto e la schiena, compiendo con la testa mezzo giro, poi un giro completo, proteggendo il ventre con il braccio.

– Mangerò qualcosa, a Dio piacendo. Ho ancora abbastanza tempo prima di precedere questi maledetti.

Accelerò per attraversare il vicolo e raggiunse il marciapiede. Si fermò all’entrata della piazza da dove diramavano, verso l’alto e verso il basso, le rampe che a tratti erano passaggi coperti.

– Il marciapiede non è cambiato. I venditori di fichi d’India sono sempre allo stesso posto e anche i negozi, ognuno con la sua specialità… sempre le stesse canzoni… ‘Aysà Jarmuni innalza qui la sua voce: ‘Ayn al-karama, portami notizie – e lì al-Fergani: il giardino, il pozzo e la noria, un po’ più lontano šaykh al-Kurd circoncisore, fa’ il tuo lavoro… L’arrotino è al suo posto e i venditori ambulanti si spostano come le nuvole da un posto all’altro.

Qui è il punto dove si trova il vero cittadino di Costantina, legato allo scorrere dei tempi, ai luoghi fortificati contro gli intrusi, il punto di partenza per la conquista di tutto l’est fino al deserto, per aprire un ampio mercato alla seta, al rame, ai profumi, alle erbe aromatiche, ai ricami e ai bauli di nozze.

La moschea verde, la moschea di Maymun e la zawiyya al-Msala sulla destra, vicino la moschea del bey, in fondo alla strada, di fronte, la moschea di Sidi Qammuš.

Tra gli odori soffocanti emerge un odore di putredine che opprime il cuore. Risuonò alle sue orecchie la voce dell’uomo col tarbuš. Succhiano persino l’aria e l’odore delle loro ascelle impesta l’atmosfera. Esaminò le mura.

– Davvero, mezzo milione è troppo in questa città. Le mura sembrano assaltarsi l’un l’altra, danno segni di debolezza, è evidente “Ogni nutrice dimenticherà il suo lattante, ogni femmina gravida abortirà. E vedrai ebbri gli uomini mentre non lo saranno, ma sarà questo il tremendo castigo di Dio”.[5]

Un sentimento oscuro si impadronì di lui. Il colore oscuro lo penetrava, trasformandosi in una sorta di lava – gas, piombo, copertoni che si sciolgono sotto l’effetto del calore.

Esitò alcuni istanti, poi si decise ad attraversare la piccola piazza in direzione della rampa prospiciente che conduceva al famoso ristorante di Balbay.

Davanti alla facciata del locale fece fatica a credere ai suoi occhi: il posto era lo stesso, ma che cambiamento.

Si girò verso il caffè di fronte, lo trovò al suo posto, ma in uno stato pietoso anch’esso. L’Hotel de France spalanca le porte, ma non vuol dir niente, Hotel de France come una volta, o è diventato l’hotel di topi e piattole?

Tornò a guardare il ristorante.

– Senza dubbio è questo. Proprio sopra l’Hotel de Tunis. Il fruttivendolo incaricato dell’approvvigionamento è sempre lì ma cosa può vendere adesso? Ibn Khaldun il malvagio! Poveretto. È un letterato non uno storico.

Scese un gradino sulla sua destra e si ritrovò all’entrata. L’intonaco dei muri è completamente slavato. Le sedie sono state sostituite da panche di legno sbeccato, niente più tavoli rotondi, ma ripiani di zinco lungo i muri.

Dio onnipotente. È ancora qui il ristorante di Balbay, che ha visto sfilare aga e bašaga, notabili e grandi personaggi, ricchi proprietari terrieri e militari… “Il Giorno in cui lo vedrete ogni nutrice dimenticherà il suo lattante e ogni femmina gravida abortirà. E vedrai ebbri gli uomini mentre non lo saranno…”.[6] Dio ha detto il vero.

Sentì il calore dentro di sé. La lava, accentuando la pressione, guadagnava terreno. Una smorfia deformò il suo volto le pupille si dilatarono. Restò così a bocca aperta con la lingua penzoloni e la testa ciondoloni.

– Benvenuto, fa’ come fossi a casa tua.

Ebbe un moto di soprassalto benché la voce mancasse di forza e sicurezza. L’interlocutore, si domandò se quello šaykh dal passo grave in abito estivo che calzava scarpe di vernice nera si sarebbe degnato di sedersi su una panca di fronte a un tavolo di zinco accanto a una banda di pulciosi: venditori di fichi d’India, facchini, ladri, aiutanti di conducenti di camion, camerieri. Avrebbe fatto una smorfia di fronte al menu: un pezzo di pane con un peperone fritto da due giorni, un uovo vecchio di una settimana, un bicchiere di latte acidulo mescolato a farina?

Guardò colui che lo invitava timidamente a prendere posto, barba folta, cherubino di un bianco dubbio, occhialini, camicia lisa e rammendata, pantaloni a sbuffo, vecchio, statura bassa, testa grossa, torace striminzito.

Balbay in carne e ossa. Solo, i capelli erano diventati bianchi, le ossa meno secche: era ingrassato. Mio Dio. Quasi irriconscibile.

– Chi vedo? Chi vedo? Il bašaga al-Hafsi?

– No.

– Il bašaga Ben Šnuf?

– No, guarda bene.

– El-Hajj Muhata?

– Vediamo, hai in testa solo bašaga, aga e collaborati dei francesi. Hai dimenticato gli uomini di scienza, la gente onesta, i veri notabili?

– Ah. Šaykh ‘Abd al-Majid Bu al-Arwàh. Che tu sia il benvenuto, mille volte benvenuto, mettiti comodo. La tua voce non è mai estranea alle mie orecchie.

Šaykh ‘Abd al-Majid Bu al-Arwàh si inchinò con condiscendenza per abbracciarlo e gli chiese:

– Allora amico mio? Ho l’impressione che tutti siano andati avanti mentre tu sei rimasto indietro.

– È la vita, con le sue sconfitte e i suoi colpi duri. In ogni caso dobbiamo ringraziare Dio accettare i giorni buoni e quelli cattivi. Dio ha detto il vero: “In verità abbiamo il potere di sostituirli con chi è meglio di loro, nessuno potrebbe impedirlo”.[7]

– Sì, Dio ha detto il vero.

– Šaykh Bu al-Arwàh seguì il suo ospite poi, colto dall’emozione, abbassò il capo recitando fra sé il seguito del versetto coranico: “Lascia dunque che disputino e giochino finché non incontreranno il Giorno che è stato loro promesso; il Giorno in cui usciranno dalle tombe in fretta, come chi si affretta verso bandiere drizzate, gli occhi bassi, pieni di contrizione; ecco il giorno promesso”.[8]

Poi, a voce alta:

– Dio ha ragione. L’essenziale è conservare la salute del corpo e dello spirito.

– Dobbiamo ringraziare Dio, accettare dalle sue mani le prove e i benefici. Dimmi i particolari… Un’assenza così lunga…

– È vero, ho lasciato Costantina da molto tempo. Sei anni a Tunisi, e nove anni nella capitale.

– Ah. Nella capitale? E cosa fai lì? Sei sicuramente al governo šaykh.

– Che Dio maledica questo governo di rinnegati e di eretici! Mi rifugio in Dio. Sono nell’insegnamento. Direttore.

– Prego. Prego.

– Il tuo ristorante è molto cambiato, a quanto vedo.

– Da me. Nel retro. Ti preparerò una grigliata, testa di montone o quel che ti piace. Ho anche del latte, quello vero, di riserva per gli amici come te. È un’ora benedetta. La benedizione esiste ancora. Esistono il bene e la misericordia.

Šaykh Bu al-Arwàh notò una fotografia fissata alla parete e si avvicinò per vedere meglio. Restò sbigottito riconoscendo Šaykh Ben Badis tra Tebessi e al-Ibrahimi.

Accanto a noi commercianti, i traditori o la gente fallita. I veri rappresentanti del popolo sono questi, non gli operai, i khammàs,[9] i pastori, pensò.

Si voltò verso Balbay che sorrideva placido… e disse fra sé: Finalmente ho trovato una persona che crede che questi siano uomini pii.

– Su, prego.

– Dopo di te.

Entrò con lui nel retrobottega. Balbay lo fece sedere davanti a un tavolo e gli chiese di attendere un istante. Il tavolo era in buono stato, dopo i banconi e gli scaffali dava un’impressione di lusso. Mentre era assente, si mise a ispezionare la decorazione dei muri.

Un grande ritratto in cornice dorata attirò subito il suo sguardo.

Si alzò per esaminarlo.

Balbay ai tempi della grandezza in mezzo a una serie di personaggi venuti da tutta la provncia: bašaga, aga, qa’id, deputati, alti funzionari… sotto la luce imponente il cui lucore si rifletteva sulle posate d’argento, i bicchieri di cristallo, i vasi in rame ornati di fiori.

Di ritorno con due scodelle di zuppa, un piatto di cotolette e un vassoio di fichi freschi, Balbay si sedette e domandò:

– Come vanno gli affari nella capitale?

– A che serve parlarne? La situazione è la stessa che al centro all’est o a ovest. Ibn Khaldun aveva trovato la formula… e voi qui?

– Lo vedi da te. La gente è pronta a sbranarsi.

– E il tuo famoso ristorante, cosa gli è successo? Cosa lo ha ridotto così?

– Taci. Taci. I francesi hanno lasciato la zona e i musulmani hanno preso il loro posto. L’appartamento che ospitava una famiglia adesso ne contiene diverse. E se le famiglie francesi erano di tre persone, quattro al massimo, quelle dei tuoi cugini… sono di nove o dieci. Costantina è stata sommersa dal flusso di beduini usciti dai villaggi e dalla piccole città. Ma non ci sono più clienti, né per i ristoranti di lusso né per quelli popolari. Anche le persone che vengono in città per affari – per venire a trovare il proprio figlio che è al liceo, o acquistare pezzi di ricambio – hanno parenti qui dove mangiano, tanto che ho dovuto, come constati, adattarmi alle circostanze: un peperone, un uovo sodo, un bicchiere di latte, e simili… Dobbiamo accettare la buona e la cattiva sorte.

– Oggi lo šaykh della Grande Moschea ha fatto la sua khutba sul terremoto.

– Eh! Lo šaykh è in ritardo. Il Terremoto ha già raggiunto Costantina.

– Che dici?

– La Costantina autentica non esiste più, ti assicuro. Ha avuto il suo terremoto e ha perso i suoi veri figli. Dov’è la Costantina dei Balbay, dei Belfiqun, dei Benjallul, dei Bentšiku e dei Ben Krara? Il terremoto ha fatto nascere una Costantina dei Bu Fnara, dei Bu Ša‘ir e dei Bu Ful, dei Butamin e dei Bu di tutte le piante ed animali.[10]

– Ma questa volta il terremoto sarà forte, molto forte. Metterà tutto sotto sopra, come lo descrive il Corano.

– Il terremoto arriva una volta sola Si Bu al-Arwàh. C’è chi lo sente prima che arrivi, altri ne prendono coscienza nel momento in cui accade e altri ancora lo riconoscono solo dopo con più o meno ritardo.  Il terremoto è questo scompiglio.

– Sì, è proprio così che lo presenta il Corano: “Il sisma dell’Ora sarà cosa terribile. Il Giorno in cui lo vedrete ogni nutrice dimenticherà il suo lattante, ogni femmina gravida abortirà. E vedrai ebbri gli uomini mentre non lo saranno”.[11] Dio ha detto il vero.

– Sì, ha detto il vero. Anch’io, Si ‘Abd al-Majid Bu al-Arwàh, ho presentito il terremoto il giorno in cui gli scalzi, i pulciosi e i guardiani di capre hanno disertato le campagne e i villaggi e sono entrati in città per uccidere i notabili, prima di ritornare nei loro tuguri. Quel giorno mi sono detto: ci siamo, il terremoto! Tutti questi aga, i bašaga, i qa’id, gli ufficiali sgozzati davanti al ristorante per mano di un pastore, di un khammàs, di un macellaio o di un carbonaio. È successo senza esitazione.

– “In verità abbiamo il potere di sostituirli con chi è meglio di loro, nessuno potrebbe impedirlo”.[12]

– È proprio quello che è successo, poi è finita. Dobbiamo accettare la buona e la cattiva sorte e rendere grazie a Dio per la salute fisica e mentale.

Šaykh ‘Abd al-Majid Bu al-Arwàh considerò attentamente Balbay, che mangiava con appetito: l’uomo non si preoccupava minimamente e parlava senza riflettere.

No, questo non è un vero commerciante. La gentaglia frequenta il suo locale e lui è diventato come loro. Che pena!

Il grande Balbay che era in confidenza con i bašaga, gli ulamà’, i giudici, i deputati è ridotto così.

– Il giorno in cui ho dovuto fare a meno del personale, rimboccarmi le maniche, mi sono messo a nutrire gli altri per assicurare il mio nutrimento e quello per la mia famiglia. Non si trattava più di terremoto. Ma in fondo, finché c’è la salute… šaykh ‘Abd al-Majid Bu al-Arwàh.

Balbay dava l’impressione di indovinare i pensieri del suo ospite o di voler convincere sé stesso. ‘Abd al-Majid Bu al-Arwàh gli troncò la parola.

– Se capisco bene, non un solo commerciante, non un solo proprietario terriero è contento di sé né degli altri né della situazione. La gente è disgustata. Il popolo, quello vero, è preso alla gola. Il loro animo è colmo di turbamento, di colore scuro e di lava.

– Sono una giara spezzata da tempo. Non è più come prima. Dopo la fortuna la sfortuna.

Šaykh ‘Abd al-Majid Bu al-Arwàh, esasperato dalla rassegnazione e dalla calma dell’altro, lo interruppe di nuovo.

– Hai idea del perché sono venuto qui con un caldo simile?

– No.

– Sono venuto per anticiparli.

– Chi?

– Quelli del governo.

– Il governo?

– Sì. Avvicinati un po’: è un segreto. Solo alcune persone ne sono al corrente. Ascolta, si stanno per gettare sulle proprietà delle persone.

– Sulle proprietà?

– Sì, hanno preparato in gran segreto un progetto contorto e pericoloso.

– Dici?

– Sì,  strapperanno le terre ai loro proprietari.

– Strapperanno la terra ai proprietari?

– Ascoltami. Le nazionalizzano.

– Per farne che?

– Come hanno fatto con le terre abbandonate dai francesi. Ti rendi conto. L’invidia, la gelosia. “Ogni vaso è sporco di ciò che vi si trova dentro”.

– Ma dicevi di volerli precedere.

– Sì. La cosa resta fra noi. Puoi comunque avvertire qualche proprietario grande o piccolo. Io dividerò – sulla carta – la mia terra fra i miei eredi. Quando verranno a confiscarla non troveranno molto in mio possesso.

– Ma Šaykh ‘Abd al-Majid Bu al-Arwàh sei molto in ritardo. La gente furba ha risolto questa questione da anni. Era chiaro dal giorno in cui si è cominciato a parlare di socialismo.

– Ad Algeri ci siamo creduti più furbi degli altri. Pensavamo di conoscere le intenzioni di questi famosi responsabili. Eccoci fregati. Balbay, il lupo non si addomestica.

– È vero, hai ragione. Hai fatto bene a venire a dividere la tua terra fra i tuoi figli. È semplice a quanto pare.

– Fra i miei eredi. Non ho figli, purtroppo… Non è così semplice come sembra…

– Perché?

– Primo si tratta di ritrovare i miei parenti con i quali ho rotto dai tempi della guerra se non prima, mi domando se alcuni siano ancora in vita. Secondo, dovrò convincerli ad aiutarmi a realizzare il mio piano. Infine, ed è l’essenziale, non posso permettermi di indugiare; secondo le voci che corrono l’affare è imminente, il decreto sta per essere pubblicato.

– Basta che tu ritrovi uno o due dei tuoi parenti.

– Non è così semplice, è legata alla quantità di terra. Possiedo più di tremila ettari.

– Ah!

– Una parte l’ho ereditata, il resto l’ho acquistata o me la sono fatta concedere dagli eredi.

– Hai tardato troppo Šaykh Bu al-Arwàh.

– Chi poteva prevedere che saremmo arrivati a questo punto? Balbay avrebbe voluto il costo del pasto? Šaykh Bu al-Arwàh esitava a pagare. In un attimo il figlio di Balbay prese la banconota dalle mani di Šaykh ‘Abd al-Majid Bu al-Arwàh sorridendo:

– Che Dio moltiplichi il tuo bene.

Senza aspettare Šaykh Bu al-Arwàh lasciò il locale e si mise a salire le scale di pietra. Gli artigiani svolgevano il loro lavoro, ritmato dai colpi di martello, i piedi, la pelle e le ascelle esalavano i loro odori, i negozi di barbiere, sulla destra, diffondevano i loro profumi nell’aria… Era colpito dalla familiarità che esisteva fra tutti questi artigiani. Uno lavora nel suo negozio, l’altro sulla soglia, uno fabbrica scarpe e l’altro le ripara, quando non è lo stesso che compie entrambe le operazioni… ah, qualcosa di nuovo: questo riparatore di radio e televisioni non esisteva, è nuovo. In ogni caso non quando me ne sono andato. Elettricità, elettronica, transistor, apparecchi radio, tutto questo fra artigiani e venditori di fichi.

La gente sale e scende indaffarata.

Le ondate di odori si susseguono, si stendono le une sulle altre.

Le donne svelate sono più numerose di quelle velate nella loro mlaya nera. Gli occhi delle donne, specialmente le più giovani, le loro occhiate sfrontate e senza vergogna.

Sembra che a Costantina non ci si sposi più. Impossibile trovare un alloggio (dove c’era una famiglia adesso se ne ammassano numerose…)

Sembra che promiscuità e confusione regnino ovunque in questa città e che molte cose siano diventate naturali…

Venditori, commercianti e artigiani camminano uno sopra l’altro, la promiscuità è la regola tra vicini, tra genitori e figli, tra fratello e sorella, pedoni e automobili si incrociano, gli odori si mescolano gli uni agli altri, si potrebbe dire lo stesso delle parlate, delle fattezze e dei sessi.

Questi muri pendono, le terrazze sprofondano… mezzo milione di persone su una roccia.

Ah. Ecco la moschea di Sidi Qammuš… non c’è potenza né forza se non in Dio. Siamo di Dio e a lui ritorneremo… La moschea è occupata, è diventata uno studio medico per le malattie respiratorie. “Il sisma dell’Ora sarà cosa terribile. Il Giorno in cui lao vedrete ogni nutrice dimenticherà il suo lattante, ogni femmina gravida abortirà. E vedrai ebbri gli uomini mentre non lo saranno”. La roccia vi porterà via tutti nella sua caduta. L’acqua scava gallerie in tutte le direzioni. Dio sa quante cadute, quante esplosioni si preparano. Da un momento all’altro la roccia ci farà sapere che ne ha abbastanza di sopportarci… Sidi Ràšid, Signore del Vulcano, pronuncia la sentenza. Porta via con la roccia questi empi, questi peccatori… il terremoto, quello vero, si annuncia. Come ho potuto metterci così tanto tempo per aprire gli occhi e prevedere il suo arrivo?

Come hanno potuto svanire i presentimenti di Balbay in un’atmosfera simile?

Nel frattempo aveva raggiunto l’ultimo gradino e aveva imboccato via 19 Maggio. Il calore lo soffocava sempre di più; sentiva la lava che lo penetrava e lo riempiva col suo peso oscuro, gli opprimeva il petto, aveva la testa sotto pressione. Dovette appoggiarsi contro il muro con tutte le sue forze.

Ecco quella che una volta era rue de France, prolungamento di rue Caravan, dove si trovava il liceo Aumale. Questo era l’amore. La passione, la gioia e l’allegria. Lo sguardo delle ragazze europee ed ebree brillava, lì si sentiva il profumo del gelsomino, del sogno dorato, del laban…

“In verità abbiamo il potere di sostituirli con [altri] migliori di loro e nessuno potrebbe precederCi”.

Decise di proseguire in direzione di un vicino caffè per riposarsi un po’, ma nel gettare un’occhiata sul lastricato della strada si fermò.

Nuvole di polvere: gli sputi lucevano sotto il sole, la gente passava puzzolente, indaffarata nelle proprie faccende, alcuni portando un tacchino o un paniere di uova, altri spingendo davanti a sé un carretto carico di pomodori, cipolle o fichi. Alcuni vendevano questo o quello e altri pagavano, ma tutto di fretta.

Fece risalire lo sguardo lungo la strada, fino ai suoi piedi. Prestò orecchio alla voce di una vecchia che parlava in evidente dialetto “qulliyya”[13] e che aveva davanti a sé delle foglie di canapa arrotolate una accanto all’altra.

Ero con lei, poverina, un giorno. Il sole picchiava ma un po’ meno di oggi. Aveva sulle spalle il suo settimo figlio. Il padre, partito per la Francia nel mese di aprile, aveva promesso di mandarle dei soldi non appena giunto là. Ma non aveva ricevuto nulla.

Forse non aveva ancora trovato lavoro.

Ti stavo dicendo… la poveretta portava il bambino fissato sulla schiena con spilloni, anchi’o portavo il mio sesto, ancora incapace di camminare.

Con il falcetto in mano, sul davanti il grembiule, lavoravamo la terra di hajj Bul‘abayz che la ingaggiava ogni estate per un sa‘[14]di grano, due sa‘ di orzo e duecento duro.

Il bambino, sul suo dorso, si era addormentato. La madre, madida di sudore, era al limite delle forze. Con la mano destra maneggiava il falcetto, mentre con la sinistra raccoglieva le spighe. Precedeva di qualche metro il gruppo dei mietitori. Improvvisamente ha cacciato un urlo.

– Ah, ya yemma, aiuto, mio figlio è orfano.

Ha fatto un salto e uomini e donne si sono precipitati verso di lei, una macchia blu saliva dal piede destro verso il ginocchio poi ha raggiunto il ventre, prima di estendersi a tutto il corpo.

Poveretta. Vittima di un ‘ifrit malvagio.

Le abbiamo fatto un salasso, l’abbiamo curata, finché non ha esalato l’ultimo respiro. Ha lasciato sette figli, che si aggrappano alle mie gonne.

– Nana, ya nana.


[1] Riferimento al versetto coranico che afferma di operare il bene ed evitare il male. Surat Al ‘Imràn, vv. 103-110.

[2] Riferimento a surat an-Nàs.

[3] Il duro era una moneta che corrispondeva a 5 centesimi di dinaro. Attualmente non è più in uso, ma nel linguaggio corrente il vocabolo si usa ancora per esprimere tale valore o in espressioni del tipo “Non vali un duro” a indicare il poco valore di qualcuno.

[4] Surat al-hajj, v. 2.

[5] Surat al-hajj, v. 2.

[6] Surat al-hajj, v. 2.

[7] Surat al-Ma‘àrij, vv. 40-41.

[8] Surat al-Ma‘arij, vv. 42-44.

[9]Termine spregiativo per riferirsi ai braccianti. Deriva dal vocaboloo per “cinque”, perché al khammàs spettava un quinto del raccolto della terra che lavorava.

[10] Il riferimento è al fatto che i primi sono cognomi “storici” di Costantina, mentre i secondi contengono nella seconda parte del nome elementi legati all’agricoltura, indicativi della provenienza di chi li porta.

[11] Surat al-hajj, vv. 1-2.

[12] Surat al-Ma‘àrij, vv. 40-41.

[13] Dialetto di al-Qull, cittadina nei pressi di Skikda, nell’Algeria occidentale.

[14] Il sa‘ è una misura di capacità per aridi con cui venivano e in parte vengono pagati i lavoratori agricoli in Africa.

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