La letteratura di prigionia all’epoca di Ḥāfiẕ al-Asad
A cura di Federica Pistono
Nella seconda metà del Novecento, la narrativa siriana tratta ampiamente la problematica della violazione dei diritti umani, elaborandola in opere di fiction ambientate fuori dal carcere o in testi di adab al-suğūn. La letteratura si fa dunque portavoce di biasimo e critica nei confronti del regime ma lo scrittore, ai fini di salvaguardare la propria incolumità personale, adotta generalmente la soluzione di ambientare la propria storia in un altro tempo o in un luogo indefinito, oppure di rappresentare la realtà servendosi di un linguaggio figurato e allusivo, ricco di metafore e di allegorie, oppure, per godere della possibilità di esprimersi apertamente, sceglie la via dell’esilio. Già negli anni Sessanta, dopo la Legge di Emergenza promulgata nel 1962, fortemente limitativa delle libertà individuali e collettive, il celebre poeta Nizār Qabbānī vagheggia la creazione di un’utopica “repubblica dell’amore” in contrapposizione al regime liberticida.
Negli anni Settanta, con la promulgazione della nuova costituzione del 1973 che assegna al presidente il potere esecutivo, si sviluppa la censura della stampa e si rafforza l’apparato dei servizi segreti, le temutissime muḫābarāt, che, fornite di una vasta rete di spie, vigilano costantemente, arrestando chiunque sia anche lontanamente sfiorato dal sospetto di dissidenza. Scrive Zakariyā Tāmir:
«Mi resi conto allora che i bambini non sono i soli ad aver paura della polizia, così dissi con un tono che si sforzava di nascondere la tremarella: “Io? Che cosa ho fatto?”
“La tua schiena… La tua schiena curva offende il buon nome del paese. Soltanto l’affamato o il malato cammina come te”.
“Infatti io sono proprio affamato e ammalato”.
“Sfacciato! Dici di essere affamato e malato? Questo discorso è un attacco dichiarato allo Stato”.
“Mi dispiace. Mi scusi. Non intendevo attaccare nessuno”.
Indicò con il lungo dito la mia faccia e disse: “E la tua faccia?”
“La mia faccia? Che cos’ha?”
“Guardati allo specchio. La tua faccia è imbronciata. Perché?” “Perché sono senza lavoro”.
“Taci! Osi criticare le leggi?”
“Io?”
“Silenzio! Allontanati dalla mia faccia e fa’ attenzione quando cammini per le strade!» [1]
Questo racconto, come molti altri delle numerose raccolte di Tāmir, contiene una chiara allusione al fatto che la Siria sia ormai diventata uno Stato di polizia e che il cittadino sia esposto a soprusi e a violazioni di ogni genere, ma è assolutamente privo di riferimenti spazio-temporali che consentano di individuare la Siria come luogo in cui si svolge la vicenda o il regime baathista come il responsabile dell’oppressione.
In un altro celebre racconto, Tāmir scrive:
(…) «Il nono giorno il domatore arrivò con un fascio di erba, lo gettò davanti alla tigre e disse:
«Mangia!»
«Che cos’è? Non lo sai che sono carnivora?»
«Da oggi mangerai solo erba».
Quando la tigre ebbe sempre più fame, cercò di mangiare l’erba, ma il suo sapore le ripugnava. Si allontanò disgustata, ma poi tornò una seconda volta e cominciò pian piano ad abituarsi a quel gusto. Il decimo giorno sparirono il domatore, i discepoli, la tigre e la gabbia. La tigre diventò un cittadino e la gabbia una città.»[2]
In questo racconto, apparso nel 1978, l’autore narra in modo esasperato della vessazione del cittadino da parte di un apparato politico e poliziesco che sembrava, a quei tempi, disporre dell’eternità davanti a sé. L’unica salvezza per l’individuo risiede nell’asservimento e nella sottomissione al potere. Tāmir ricorre all’allegoria: il dittatore è rappresentato come un domatore, il popolo siriano, inizialmente fiero e bellicoso poi costretto ad arrendersi, come una tigre. Anche se il significato del racconto è lampante, non si riscontrano indicazioni spazio-temporali che permettano di identificare luoghi o persone.
Nel 1970 il drammaturgo Saʿdallah Wannūs scrive:
(…) «Noi amiamo l’elefante, o re del tempo. Come voi, lo amiamo e ci prendiamo cura di lui. Le sue passeggiate in città ci rallegrano. Siamo contenti di vederlo. Siamo talmente abituati, che è diventato impossibile immaginare la nostra vita senza di lui. Ma abbiamo notato che l’elefante è sempre solo e che non ha ancora ottenuto la parte di gioia e di felicità che gli spetta. La solitudine è triste, o re del tempo. Perciò abbiamo pensato di venire qui, noi sudditi, e di chiedervi di far sposare l’elefante per alleviare la sua solitudine e affinché generi per noi decine di elefanti, centinaia di elefanti, migliaia di elefanti, così da riempire la città di elefanti». [3]
Il brano è tratto da una delle opere di Wannūs, al-Fīl malik al-zamān (L’elefante, o re del tempo), in cui l’autore indaga la natura del potere e le sue manipolazioni, analizzando i rapporti tra dittatore e sudditi.
Anche in quest’opera, come nel racconto di Tāmir, l’autore ricorre all’allegoria, al linguaggio metaforico, raffigurando la tracotanza e la brutalità del regime servendosi dell’immagine dell’elefante assassino che affligge l’esistenza dei cittadini devastandone i beni e schiacciandoli sotto le sue zampe.
Il primo romanzo appartenente al genere dell’adab al- suğūn, nella Siria di Ḥāfiẕ al-Asad, può essere considerato al-Siğn di Nabīl Sulaymān (La prigione, 1972). [4]
L’autore, critico letterario e romanziere, racconta, nello stile del realismo socialista, la storia di Wahāb, un giovane che viene arrestato, torturato e imprigionato per lunghi anni a causa della sua appartenenza a un’organizzazione comunista clandestina. La vicenda è ambientata negli anni Cinquanta e fa riferimento alla storia degli oppositori politici del governo Šišāklī (1951-54). Sulaymān compie, dunque, un’operazione piuttosto comune, quella cioè di collocare la storia narrata in un’altra epoca per poter parlare del presente senza incorrere nei rigori della censura. L’opera sviluppa una trama abbastanza diffusa nella narrativa di prigionia: il romanzo si apre infatti con l’arresto del protagonista dopo un periodo di latitanza, descrive minuziosamente gli interrogatori e le torture che il giovane subisce, prosegue narrando l’angoscioso periodo trascorso dal prigioniero in una cella di isolamento, continua con il racconto dell’ingresso di Wahāb in una cella comune e della sua vita quotidiana con i compagni di prigionia.
Ricorrendo al realismo socialista, l’autore, in questo romanzo, dipinge il ritratto di un singolo prigioniero politico come pure quello di un gruppo di detenuti che affrontano la prova della tortura e del carcere, rientrando nei parametri di quella che Yāsīn al-Ḥağğ Sāliḥ definisce “ideologia del carcere”, [5] una concezione, cioè, volta a esaltare l’eroismo dei prigionieri politici, la loro capacità di resistere alla sofferenza fisica inflitta con la tortura, al disagio psicologico subito con il regime dell’isolamento, agli stenti. Questi prigionieri sono non solo coraggiosi e indomabili nel loro eroismo, sono anche leali, generosi e profondamente solidali fra loro, formando così uno scudo che li difende dall’aggressione costante del sistema penitenziario. Impregnato di tale ideologia, come gran parte della letteratura di prigionia araba e siriana di questo periodo, l’opera raffigura la resistenza all’oppressione politica del regime unicamente come una forma di progetto collettivo, eroico e condiviso.
Il protagonista riesce a resistere alle torture cui è sottoposto senza fornire informazioni ai suoi aguzzini e ad adattarsi piuttosto facilmente alla vita in carcere. La narrazione minuziosa e particolareggiata delle torture, che spesso ricorda i reportage redatti dagli attivisti delle organizzazioni per la tutela dei diritti umani, non lascia dubbi circa la validità o l’autenticità delle descrizioni contenute nell’opera.
Attraverso la storia di Wahāb, l’autore fornisce un autentico catalogo delle forme di tortura praticate nelle prigioni siriane, un catalogo cui attingeranno ampiamente gli scrittori di narrativa di prigionia in epoca successiva. Il protagonista è un eroe, non dimostra mai la propria sofferenza fisica durante i trattamenti bestiali cui è sottoposto: sopporta stoicamente, senza mai lamentarsi, le percosse, la flagellazione all’interno di uno pneumatico, l’elettroshock, la privazione del sonno, l’isolamento, l’esposizione al rumore assordante e alla luce accecante, lo stupro. Wahāb ostenta indifferenza perfino quando gli aguzzini minacciano di sottoporre a interrogatori e torture i suoi familiari e amici. In tutta la prima parte del romanzo, il protagonista soffre atrocemente ma riesce a resistere e, alla fine, a trionfare sul ricorso sistematico alle più efferate torture da parte degli aguzzini che rappresentano il regime.
Un esempio della resistenza del protagonista ai torturatori che vogliono estorcergli informazioni si può rinvenire nella scena in cui Wahāb viene inserito nello pneumatico e frustato:
«Lo gettarono sul pavimento, uno di loro lo colpì alla testa con la punta della scarpa, brutalmente. Da un angolo, un altro (carceriere) fece rotolare uno pneumatico, fermato dal corpo di Wahāb che, poco a poco, cominciò a sentirsi alienato dalla realtà che lo circondava. Gli infilarono le gambe nello pneumatico, lo incastrarono all’interno spingendo dentro la testa… Scoprì di avere un corpo molto flessibile. Il gioco gli strappò una risata, mentre gli faceva sanguinare il cuore. Quella risata, che non gli era neppure uscita dalle labbra, provocò la rabbia degli uomini. Usarono le canne, provarono a picchiare un altro (prigioniero) per arrivare a lui. All’inizio, preferirono i piedi, quindi tutto il corpo cominciò ad attirarli».[6]
Subito dopo la tortura all’interno dello pneumatico, il sergente, capo degli aguzzini, prima di andarsene, invita i suoi uomini a costringere il prigioniero a confessare oppure a “finirlo”. Wahāb abbassa le palpebre e decide in cuor suo di non parlare per salvare i compagni di lotta. Il protagonista rimane chiuso nel suo eroico silenzio per tutto il romanzo, determinando il fallimento del piano dei suoi carnefici.
[1] Z. Tamer, Il falcone, in Primavera nella cenere e altri racconti, Cicorivolta Ed., Villafranca in Lunigiana, 2012, traduzione di F. Pistono, p. 64.
[2] Z. Tamer, Le tigri nel decimo giorno, in Scrittori arabi del Novecento, Milano, Bompiani, 2002, traduzione di I. Camera D’Afflitto, p. 250.
[3] S. Wannūs, L’elefante, o re del tempo, in Antologia della letteratura araba contemporanea. Dalla nahda a oggi, a cura di M. Avino, I. Camera D’Afflitto, A. Salem, Roma, Carocci, 2015, p. 140.
[4] N. Sulaymān, al-Siğn, Bayrūt, Dār al-Fārābī, 1972.
[5] R. Shareah Taleghani, The Cocoons of Language. Torture, Voice, Event, in Human Rights, Suffering, and Aesthetics in Political Prison Literature, edited by Y. Wu and S. Livescu, Plymouth, Lexington Books, 2011, p. 123.
[6] N. Sulaymān, al-Siğn, op. cit., pp. 19-20.
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