Recensione Siria di di Zuleila Abd El Sattar

Il tema della dittatura, che si insinua costantemente nella sfera privata dei cittadini fino ad alterarne pesantemente le scelte e a sconvolgerne totalmente le vite, può considerarsi il motivo portante del romanzo Ḥurrās al-hawā’ di Rūzā Yāsīn Ḥasan, del 2009, tradotto in italiano come: Rosa Yassin Hassan, I guardiani dell’aria, (Alberobello, Poiesis Editrice, 2018, traduzione di F. Pistono).
Nel suo primo romanzo, Abanūs (Ebano, 2004), vincitore del secondo premio nel concorso “Ḥannā Mīna”, l’autrice ripercorre la vicenda di più generazioni di donne, sullo sfondo di un secolo di storia siriana, dagli albori del XX secolo agli inizi del XXI. Questi personaggi femminili, ciascuno dei quali rappresenta una fase della storia nazionale, sono legati tra loro da un oggetto, una cassapanca di ebano destinata a custodire il corredo di una sposa, che passa da una generazione all’altra. Ogni donna, dalla prima all’ultima, utilizza la cassapanca secondo le proprie necessità, offrendo un’interpretazione particolare della propria esistenza e del periodo storico in cui la sua vicenda personale si inquadra.
L’autrice ripercorre così un secolo di storia siriana in un’opera che descrive l’evolversi della condizione femminile sullo sfondo delle trasformazioni politico-sociali del paese.
In Ḥurrās al-hawā’, Rūzā Yāsīn Ḥasan illustra come la dittatura dispieghi i suoi effetti anche su quegli individui che non vengono, apparentemente, stritolati dai suoi ingranaggi. Il romanzo è ambientato a Damasco nel 2003 ma, grazie alla tecnica del flashback, dipinge un affresco della vita e della società siriane dell’ultimo scorcio del XX secolo fino agli albori del nuovo millennio.
La protagonista ʽAnāt lavora come interprete all’ambasciata canadese di Damasco, traducendo dall’arabo all’inglese le testimonianze dei profughi che richiedono asilo al Canada.
Al principio della storia, la protagonista è all’inizio di una gravidanza e la vicenda si dipana nei mesi che precedono il parto. L’autrice adopera l’accorgimento di alternare un capitolo collocato nel presente a un capitolo ambientato nel passato, in modo tale da ricostruire il vissuto personale della protagonista sullo sfondo della storia nazionale siriana. ʽAnāt proviene da una famiglia alawita e vive con il padre vedovo, Ḥasan. Capitolo dopo capitolo, il lettore ripercorre la storia del personaggio: negli anni Ottanta, la ragazza ha incontrato Ğawād, un giovane di confessione drusa con il quale ha vissuto un’intensa storia d’amore, ma il giovane, militante in un’organizzazione comunista clandestina, è stato arrestato e rinchiuso nelle carceri del regime. Mentre Ğawād ha sopportato quindici interminabili anni di reclusione, ʽAnāt, ha consumato la propria giovinezza nell’attesa della scarcerazione del detenuto. Nel corso di questi lunghissimi anni, qualche volta la ragazza ha tradito il compagno, oppressa dalla solitudine e dalla frustrazione sessuale, ma non lo ha mai abbandonato. Quando Ğawād viene finalmente liberato, i due protagonisti si sposano ma, dopo un breve sprazzo di felicità, non riescono a ritrovare l’intesa e la passione di un tempo. Dopo un periodo angoscioso passato a cercare inutilmente un lavoro e a litigare con la moglie, Ğawād parte per la Svezia alla ricerca di un futuro migliore di quello che gli riserva la patria. Stesso triste destino attende anche un’altra coppia di dissidenti, Mayyāsah e Iyād, amici dei protagonisti: dopo l’esperienza del carcere, dell’amore e dell’entusiasmo della giovinezza non resta che cenere. È inutile cercare di riaccendere fuochi ormai spenti.
Dopo aver atteso il proprio uomo rispettivamente per dieci e per quindici anni, Mayyāsah e ʽAnāt si ritrovano entrambe sole: mentre il marito della prima, dopo un periodo di incomprensioni e sofferenze, abbandona la moglie per un’altra donna, il marito della seconda emigra addirittura in un altro continente, sperando che la moglie, di cui ignora lo stato di gravidanza, si convinca a raggiungerlo. Dopo quindici anni di separazione dovuta alla prigionia, comincia, per Ğawād e ʽAnāt, un nuovo periodo di distacco e di lontananza, destinato forse a durare per sempre.
Il romanzo racconta anche la storia di una terza donna, Dūḥah, sorella di Mayyāsah. Il marito di
Dūḥah è arrestato insieme a quello di Mayyāsah ma la donna non si comporta come la sorella, non si rassegna ad aspettare il marito per lustri, ben presto si rivolge al tribunale per ottenere il divorzio e poi risposarsi in breve tempo con un ricco commerciante aleppino. Contrariamente alla sorella e all’amica ʽAnāt, che, indignate, interrompono i rapporti con lei, Dūḥah non accetta l’idea di sacrificarsi per lunghi anni per il marito.
I fatti, in fin dei conti, non le danno torto: ʽAnāt e Mayyāsah hanno consumato l’intera giovinezza nell’attesa degli assenti e, al termine del lungo percorso di sofferenza non solo non ricevono un premio, ma si accorgono di aver coltivato nel cuore il fantasma di un amore morto da lungo tempo. ʽAnāt trova conforto nella prossima nascita del figlio che forse darà un senso alla sua vita, Mayyāsah si rifugia nella filosofia macrobiotica. Dūḥah, la più egoista delle tre, quella che si è rifiutata di soffrire per amore di un dissidente, voltandogli le spalle nei duri anni del carcere, ha trascorso il suo tempo negli agi offertile dal facoltoso secondo marito, con il quale ha vissuto una vita piacevole. L’autrice sembra forse suggerire l’idea che la felicità di cui un individuo gode nel corso della vita non sempre sia commisurata al merito, al coraggio dimostrato, alle sofferenze patite con dignità.
Affiora a volte, fra le pagine del libro, il pensiero che la vita umana non sia altro che un’amara beffa, giacché il sacrificio e l’altruismo sono ripagati con brucianti delusioni, mentre l’egoismo non solo non viene punito dalla vita, ma, al contrario, sembra risultare fin troppo spesso la scelta vincente. Questo concetto, insieme a quello della caducità della vita e dei sentimenti umani, torna più volte nel romanzo. Si ritrova, per esempio, nella storia dei genitori di ʽAnāt, Ḥasan e Ğamīlah. In gioventù, Ḥasan aveva sposato Saniyyah, sorella maggiore di Ğamīlah, morta giovanissima in un incidente stradale. Ğamīlah, ancora adolescente, era stata costretta a sposare il cognato vedovo per allevare la nipotina, Ṣabāḥ. Il matrimonio si rivela un fallimento e una fonte di sofferenza per entrambi i coniugi. Ḥasan non riesce a dimenticare la prima moglie Saniyyah, che gli appare sotto la forma di un etereo fantasma con cui intrattiene addirittura una relazione erotica. Ğamīlah non ha mai considerato Ḥasan come un vero marito, non ha mai vissuto un’ora di bene con lui, eppure, dopo una vita di duri sacrifici e di angosce, non ultima la preoccupazione per il fidanzato della figlia, rinchiuso nelle carceri del regime, muore a soli cinquant’anni per un tumore al polmone. Quando Ḥasan, dopo la morte di Ğamīlah, crede di ritrovare la prima moglie reincarnata in una giovane donna spagnola, viene amaramente deluso.
Il concetto che la vita umana segua meccanismi non riconducibili alla logica, l’idea che il sacrificio e la sofferenza non siano premiati, ma anzi, spesso, ripagati con nuovi motivi di dolore pervade l’intera opera.
Lo stesso titolo del romanzo, Ḥurrās al-hawā’, è passibile di diverse interpretazioni. I “guardiani dell’aria” sono sicuramente i servizi segreti che, con le loro attività di spionaggio, indagano su crimini inesistenti, finendo per setacciare anche l’aria, o che, analizzando la vita di persone innocenti, fanno del nulla l’oggetto del loro lavoro. Ma un’altra interpretazione è possibile: i “guardiani dell’aria” sono i protagonisti, che, per lunghi anni, hanno custodito nel proprio cuore qualcosa che non esisteva, qualcosa di inafferrabile come l’aria. L’amore e l’amicizia, in primo luogo, che non reggono all’urto devastante di una reclusione protrattasi così a lungo, ma anche gli ideali politici. All’inizio del periodo di carcerazione, Ğawād e Iyād sono fieri di essere prigionieri politici, sono orgogliosi della propria dissidenza. Ma come li riducono la prigionia, le torture, l’astinenza, gli stenti, il distacco forzato dal mondo? Quando esce di prigione dopo dieci anni, Iyād non è più un dissidente, gli ideali di gioventù, la politica stessa sono come evaporati dalla sua mente, che ora è ossessionata dall’idea di vivere con la moglie quella vita sessuale ed erotica che gli è stata rubata. Ma l’approccio con Mayyāsah si risolve in un disastro. L’amore e gli ideali politici di cui i protagonisti si sono fatti guardiani per anni si sono dissolti, sono diventati, appunto, aria. Lo stesso discorso è applicabile alla coppia Ğawād-ʽAnāt. Dopo quindici anni dietro le sbarre, a Ğawād la politica non interessa più, vorrebbe soltanto trovare un lavoro per vivere un’esistenza dignitosa con la moglie. Anche per ʽAnāt, quando scopre di essere in attesa di un figlio, si schiude un universo nuovo. Del passato non si salva nulla.
Emerge, in questo romanzo, l’idea della trasmigrazione delle anime.
Rūzā Yāsīn Ḥasan è alawita e sicuramente influenzata dalle credenze della comunità di appartenenza. L’idea della reincarnazione di Saniyyah, zia della protagonista, che il padre crede di ritrovare in una giovane spagnola di cui si innamora perdutamente, è però presentata in chiave ironica. Se l’innamoramento dell’anziano per la ragazza, ritenuta la reincarnazione della prima moglie, non comportasse conseguenze tragiche, la vicenda assumerebbe sicuramente valenza comica.
La credenza nella reincarnazione può essere considerata una chiave per accedere ai ricordi di una vita precedente, ma manca, nell’opera, l’idea di un destino tragico che deve assolutamente compiersi per poi ripetersi all’infinito nel corso dei secoli.
Principale artefice della vita dell’uomo resta la dittatura, con i suoi meccanismi capaci di stritolare i sentimenti più intimi e gli ideali più nobili.
Il romanzo è pervaso dalla presenza del carcere, la prigione sembra proiettare la sua cupa ombra su tutti i personaggi, specialmente sulle donne che vivono all’esterno. Anche se, in effetti, nell’opera è presente una sola scena che raffigura un colloquio nel parlatorio del carcere, con i detenuti separati dalle famiglie da una grata di ferro, la prigionia influenza e trasforma non solo la vita dei reclusi, ma anche quella dei familiari, che vivono in funzione delle visite periodiche al detenuto, degli angosciosi rituali da seguire per ottenere l’autorizzazione alla visita, della preparazione dei pasti e della scelta dei libri da portare al recluso, della preferenza da accordare al vestiario e alla pettinatura da parte della moglie o della fidanzata per nascondere gli effetti dell’incedere del tempo. Negli anni Ottanta e Novanta ripercorsi dal romanzo, non c’è quasi famiglia siriana che non abbia un componente in prigione. Le scene che descrivono l’affaccendarsi delle mogli e delle madri in vista della visita mensile o bimestrale al prigioniero ci restituiscono un’immagine della Siria come immensa prigione a cielo aperto.
Se gli uomini languono in cella, esponendo il corpo e lo spirito alle conseguenze di un lungo periodo di carcerazione, che cosa accade alle donne, mogli, fidanzate e amanti, che li aspettano all’esterno? L’autrice focalizza un’attenzione particolare su questo aspetto, presentandoci le soluzioni adottate dai tre personaggi femminili. Le due sorelle Mayyāsah e Dūḥah rappresentano le scelte estreme che possono essere compiute dalla moglie di un prigioniero. Mayyāsah decide di aspettare il marito senza scendere a compromesso, non prende neppure in considerazione la possibilità di abbandonarlo o l’idea di rendersi più sopportabile la solitudine con qualche tradimento occasionale. Mayyāsah è una donna “tutta d’un pezzo” che non cede mai alla tentazione o alla frustrazione sessuale, che non si abbandona mai a un’avventura per evadere dall’atmosfera grigia e pesante che per un decennio incombe su di lei. La sorella Dūḥah, come si è visto, compie la scelta diametralmente opposta, divorzia in fretta e rapidamente si risposa con un ricco pretendente. Una posizione intermedia risulta quella della protagonista ʽAnāt, che, pur decidendo di restare vicina a Ğawād e di aspettarlo fino alla liberazione, si concede qualche evasione occasionale. La prima volta, ʽAnāt tradisce il compagno con un conoscente incontrato casualmente in casa di amici: l’esperienza risulta oltremodo squallida e deprimente, precipitando inoltre la ragazza in un baratro di rimorsi e di sensi di colpa. Dopo qualche tempo, però, ʽAnāt conosce all’ambasciata Pierre, un giovane ricercatore canadese, e vive con lui una storia che sconfina nella passione amorosa. Quando Pierre chiede a ʽAnāt di sposarlo e di trasferirsi con lui in Canada, la protagonista, pur attratta dalla prospettiva, non riesce ad abbandonare Ğawād al suo destino e rifiuta la proposta di Pierre.
Il problema della solitudine e della frustrazione sessuale di queste giovani donne aiuta a cogliere un altro aspetto essenziale dell’opera, quello dell’approfondimento dell’universo emotivo e corporeo operato dall’autrice. A tale proposito osserva Martina Censi:
La componente amorosa e pulsionale è fondamentale per lo sviluppo della trama. La critica socio-politica passa in secondo piano, lasciando spazio alle dinamiche di coppia, trasmesse attraverso la dimensione del corpo. Quest’ultimo è rappresentato soprattutto nella sfera della sessualità, che costituisce un aspetto notevole approfondito dall’autrice, ma anche in quello della gravidanza, della malattia, della tortura, dell’invecchiamento, della sofferenza e della morte. Esso svolge un ruolo centrale, diventando il teatro all’interno del quale ha luogo l’evoluzione del personaggio[1].
Alla componente della critica socio-politica, l’autrice affianca quindi l’aspetto della dimensione individuale che assume però un significato collettivo:
«Il corpo viene utilizzato per rappresentare i temi della repressione, del piacere e della memoria, accomunati dalla dimensione dell’attesa, principale motore della narrazione»[2].
Il racconto è affidato a un narratore interno e a diversi narratori esterni, identificati nei personaggi principali, che esprimono emozioni ed elaborano ricordi. Anche i piani temporali sono molteplici, un passato lontano, un passato più recente e il presente, che si intersecano mediante il ricorso ai diversi narratori: mentre il presente è raccontato dal narratore interno, i vari livelli del passato emergono dalla coscienza dei molteplici narratori esterni, che danno voce a reminiscenze antiche o più attuali, o si abbandonano al monologo interiore per esternare il proprio stato d’animo.
Si può dunque parlare di romanzo polifonico, secondo la definizione di Bachtin[3], ossia di un romanzo in cui le innumerevoli voci non si influenzano vicendevolmente.
[1] M. Censi, Rappresentazioni del corpo nel romanzo delle scrittrici siriane contemporanee, Venezia, Università Ca’ Foscari, 2013, p. 72.
[2] Ibid.
[3] Cfr. M. Bachtin, Dostoevskij, Poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 1968.
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