In Palestina ogni muro parla

Articolo di Franco Ferioli

Parla quando sulla sua superficie non è ancora stato scritto nulla e continua a parlare anche quando è stato completamente distrutto e ridotto in macerie.

Qui, come in nessun altro luogo al mondo, l’arte dello scrivere sui muri è dettata dall’urgenza espressiva e determinata dalla necessità di sopravvivenza.

In nessun altro luogo come nel non-luogo della Palestina l’arte gratuita, pubblica e di strada esprime un valore spazio temporale legato a un doppio concetto di memoria.

Da un lato la memoria sembra essere l’unico fragile bene rimasto a un intero popolo cacciato dalla propria terra, spogliato della propria identità, oppresso militarmente e in procinto di essere cancellato.

Dall’altro emerge la forza che la memoria assume legandosi al concetto di testimonianza, di documento, di trascrizione e ricordo di luoghi, fatti ed esempi di vita privata e comunitaria.

Gli slogan di protesta, le note e gli avvertimenti sui pericoli da evitare per la popolazione civile posta sotto coprifuoco, attacchi armati e bombaradmenti, i messaggi in codice per i combattenti, i ritratti raffiguranti i martiri e le loro imprese, gli annunci di eventi comunitari o celebrazioni, si sono moltiplicati e snodati a tal punto, creando percorsi e vie di fuga, salvezza e sopravvivenza, da divenire il diario tragico e indelebile della storia di un intero popolo.

Parallelamente a quella che viene considerata l’avanguardia artistica nordamericana degli anni ’60 che diede il via al fenomeno del cosiddetto Graffitismo Metropolitano poi diffusosi in Europa con la consacrazione dei suoi più acclamati esponenti che dai sobborghi metropolitani newyorkesi riuscirono ad emergere diffondendo le proprie icone verniciandole sui muri e sui vagoni dei treni della metropolitana, anche in Medio Oriente si venne a creare un fenomeno analogo con la nascita di una icona che in breve tempo divenne un simbolo di pari importanza e valore comunicativo, diffondendosi, attraverso la Palestina, in tutto il mondo arabo e successivamente nel resto del mondo, attraverso il fumetto  satirico.

Il punto di riferimento fisso attorno cui ruota l’ispirazione degli artisti di strada palestinesi è un’icona popolare nata sui muri delle prigioni libanesi dalla mano del grande fumettista e vignettista satirico Naji al Ali negli anni ’50: un piccolo personaggio di nome Handala, raffigurante un bimbo scalzo, rattoppato, con i capelli dritti, ritratto stilizzato di spalle mentre a braccia incrociate dietro la schiena assiste agli orrori quotidiani imposti ad ogni “bambino delle pietre” nato e cresciuto in un campo profughi, divenendo il simbolo del dramma patito dal popolo palestinese.

Concepito come catalogo non ufficiale volutamente apocrifo, Palestine Bad Art: Massima destinazione del Writing, di Franco Ferioli, edizioni La Carmelina 2020, è un libro d’arte nato dall’esigenza di fornire appunti, spunti e raccolte di controinformazione, in merito a quanto non espresso dalle serie di mostre “Un artista chiamato Banksy”, attualmente in corso, benchè non autorizzate e considerate fake dallo stesso artista britannico, in molte gallerie e musei nazionali e internazionali.

Lo spunto, raccolto dalla grande celebrità raggiunta da Banksy -un artista che viene presentato come un simpatico vignettista satirico divenuto genio per l’abilità mediatica dimostrata nel gestirsi al limite della legalità e dell’anonimato e che viene considerato il maggior esponente di quella genericamente definita Street Art, disciplina illegale e vandalica che non risiede in musei o gallerie, il cui palcoscenico prediletto è la strada- non è relativo al fatto che debba essere considerato il maggior esponente della street art. Come lui ce ne sono tantissimi, di grandi, ovunque.

E in certa maniera la street art non ha bisogno di grandi: ha bisogno di tutti, perché è un tipo di arte che è libera, pubblica, gratuita e diffusa spontaneamente in ogni luogo del mondo. Banksy ha però un merito che emerge nel testo, quello di aver parlato e di continuare a far parlare di Palestina e più specificatamente quello di avere usato la chiave dell’Arte per parlare di un vecchio argomento che riguarda la cosiddetta Questione Palestinese inerente aI conflitto Arabo-Israeliano in Medio Oriente.

Quando si parla di Palestina-Israele non esiste dialogo. Da una parte ci troviamo di fronte all’immane ingiustizia di un genocidio sistematico che da oltre settant’anni viene perpetrato con una enorme disparità di forze e un dispiego terrificante di armi contro un intero popolo colpevole di esserlo, punito e pulito etnicamente, cacciato con le armi dalla propria terra, sconfitto e chiuso dentro a enormi campi per profughi di guerra, divenuti con il tempo enormi prigioni completamente chiuse da muri militari invalicabili.

Dall’altra Israele si presenta come il più grande stato-prigione del mondo che contiene al suo interno la più popolata prigione del mondo: il cortocircuito della realtà Israelo-Palestinese coinvolge tutto e tutti al punto da non permettere di capire chi in realtà sia colui più circondato da muri che dividano chi da chi, un paradosso inaudito e possibile solo in uno stato come quello israeliano, dove la logica e la pratica dominante della iper-militarizzazione è giunta a un punto tale da schierarsi contro la libertà di tutto e di tutti, tranne quella raggiunta, come massima destinazione finale, dalla consapevolezza degli artisti di strada.

Proprio perchè “the positioning is the key to graffiti” -cioè il luogo su cui si sceglie di dipingere è fondamentale per ogni graffitista- è qui che Banksy trova l’ispirazione e le condizioni migliori per lanciare messaggi indelebili che stanno contribuendo a trasformare la più oppressiva e degradante forma di chiusura e negazione della libertà di un intero popolo, nella più grande galleria di arte di strada a cielo aperto.

The Bad Art -l’arte cattiva o la cattiva arte di Banksy e degli altri ‘graffitisti di denucia e di protesta’- cioè quel tipo di arte d’avanguardia iconoclasta e clandestina che rifiuta il concetto classico ed accademico di fine arts (belle arti), per imporre quello di arte di strada e di arte di frontiera, in Israele (da intendere e leggere sotto la voce Palestina), ha trovato il suo spazio, il suo tempo e il suo Tempio sugli oltre 700km di pareti di cemento armato alte 8 metri che al presente formano il Muro di Separazione e/o il Muro dell’Apartheid.

E’ questa l’esigenza e l’urgenza autorale ed editoriale che ha colto e raccolto il libro: parlare di un argomento vecchio a persone nuove, rivolgere questo argomento all’attenzione dei giovani writers che hanno taggato, scritto o disegnato ogni muro presente in ogni parte del mondo e delle nostre città, perché non mancano gli elementi quotidiani per capire quali siano le conseguenze che ovunque, seppur lontano dalla Palestina, comporta ogni tipo di ideologia basata sulla speculazione, sull’oppressione e sull’uso delle armi.

Ad emergere dalla corrispondenza tra Banksy e Naji al Ali è semplicemente la semplicità: dove c’è guerra, dove ci sono armi, dove c’è oppressione e sfruttamento l’ideologia è quella che cavalca un sistema per fare soldi, per creare potere perché qualcuno si arricchisca. Entrambi gli artisti hanno espresso o continuano ad esprimere una metafora del cosmopolitismo e della violenza imposta dalle democrazie autoritarie e dai regimi totalitari sulle classi sociali più povere e più deboli ed è per questo che è risultata  tristemente profetica o drammaticamente evidente per tutte le masse di profughi attuali in continuo aumento e per tutte le nuove “palestine” alle quali viene sistematicamente soffocato il grido in gola e vanificata ogni speranza di pace, giustizia e libertà.

Tentando di unire entrambi i punti di vista in un’unica prospettiva, questa proposta di lettura e di visione, 159 pagine, 220 foto, riproduzioni, raccolte di disegni e vignette, intende porsi come strumento a favore della cultura della pace e dell’abbattimento dei muri e delle barriere che dividono i popoli e viene rivolta a tutti coloro che credono nel superamento del conflitto israelo-palestinese attraverso percorsi di tipo culturale. Prende spunto da quanto non detto dalle non-mostre di Banksy e da nuovi approcci da rivolgere alla Questione Palestinese, ma il suo immaginario si estende e coinvolge la condizione di stranieri, migranti, profughi, rifugiati oggi in cerca di nuove identità e cittadinanze, minacciati, discriminati e cacciati a causa della propria presenza, razza, religione, condizione economica o appartenenza politica.

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